Accertare i due tipi di assenza del “sé”

Accertare i due tipi di assenza del “sé”

Namo Mañjuśrī!

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Proiettare il “sé”

La mente che pensa “io sono” in riferimento ai cinque aggregati (skandha) del proprio continuum psicofisico si aggrappa a quell’io. In altre parole, l’oggetto referente (tib. zhen yul) di tale attaccamento è il sé dell’individuo (skt. pudgalātman) o l’”io”. Finché non facciamo delle indagini o non lo analizziamo, abbiamo la sensazione che questo “sé” esista, mentre, in realtà, non è mai esistito; così come non c’è mai stato un serpente in un pezzo di corda colorata.

I cinque aggregati, che sono la base su cui si proietta il “sé”, sono essi stessi multipli e impermanenti.

Potremmo pensare che ci sia un “sé” durevole, nel senso che viene dal passato e passerà alla fase successiva e che questo “sé” è in qualche modo unitario. Tuttavia tali idee sono semplicemente proiezioni, fatte sulla base della raccolta degli aggregati; non hanno alcun fondamento nella realtà.

Il soggetto – la mente che pensa “io sono” – si attacca a se stessa. E il suo oggetto referente è ciò che chiamiamo “sé”.

Un po’ come se scambiassimo un pezzo di corda colorata per un serpente. Proiettiamo semplicemente l’idea di un “sé” sugli aggregati, mentre il “sé” in realtà non ha esistenza reale. Capire questo è il punto di vista del “non-sé”.

Sukhi Barber - Tempel
Sukhi Barber: Temple

Tutte le cose condizionate e incondizionate tranne l ‘”io” o il “sé” sono “fenomeni” (skt. dharma). Finché non sottoponiamo le nostre ingenue supposizioni a indagine, crediamo che questi fenomeni esistano. Tuttavia, se li esaminiamo usando il ragionamento logico, come l’argomento di “né uno né molti”, arriviamo a capire che nessuna entità, sia grossolana che sottile, possa essere considerata reale.

Chiaiamo questa comprensione di come le cose manchino di qualsiasi base o origine la realizzazione della “assenza del sé” (o “assenza di identità”) dei fenomeni (skt. dharmanairātmya).

Il “sé” dell’individuo e il “sé” (o identità) dei fenomeni sono quindi oggetti di negazione

Individui e fenomeni naturalmente e realmente esistenti come i vasi. Sebbene percepiamo questi due tipi di “sé” come risultato delle nostre afflizioni mentali, quando li analizziamo scopriamo che mancano anche del minimo accenno di realtà. Questa è l’assenza del “sé” dell’individuo e dei fenomeni. Si dice che la mente che comprende ciò realizzi l’assenza del “sé”, il “non-sé”.

What Do They Mean By No-Self in Buddhism? (Hint: It's Not What You Think)

Esistono quindi due forme di “sé” percepito e corrispondentemente due tipi di soggetto, o attaccamento al sé. Per sradicare entrambe le forme di auto-attaccamento, è necessario arrivare alla certezza attraverso il ragionamento logico. Si considera come questi due tipi di oggetto, o tipi di “sé”, manchino di vera esistenza generando così la realizzazione del “non-sé” nella mente come  “soggetto”, che percepisce infine la duplice assenza di “sé”.

In breve, l’aggrapparsi a un “io” è la fonte di tutte le afflizioni mentali (skt. kleśa), quale radice del saṃsāra

Il suo antidoto è la realizzazione del “non-sé” individuale che è come la radice del sentiero verso la liberazione. E la visione totale della vacuità, attraverso la quale comprendiamo come tutti i fenomeni manchino di vera esistenza, supera le oscurazioni cognitive nella loro interezza – ed è quindi la radice del sentiero Mahāyāna.

Fino a quando non arriveremo a una certezza profonda e stabile riguardo alla grande eguaglianza che è l’inesprimibile dharmadhātu, in cui la vacuità e il sorgere dipendente sono indivisibili, dobbiamo continuare ad affinare la nostra visione.

La mera comprensione concettuale basata su una negazione non qualificata (tib. med dgag) – cioè, confutare un oggetto di negazione – è “l’ultimo categorizzabile” (tib. rnam grangs pa’i don dam), che è semplicemente una porta verso la vera realtà ultima, non la natura ultima stessa.

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La Via di Mezzo dell’unità illimitata, o “ultimo non-categorizzabile” (tib. rnam grangs ma yin pa’i don dam), è lo stato naturale dell’indivisibilità delle due verità. Esso viene compreso attraverso la mera e chiara consapevolezza auto-conoscitiva ed è caratterizzato da pacificazione dell’elaborazione concettuale.

In breve, la comprensione concettuale nata dall’analisi porta la certezza genuina e la comprensione decisiva che tutti i fenomeni di saṃsāra e nirvāṇa appaiono nonostante manchino di un atomo di vera esistenza – come diventa chiaro quando li sottoponiamo ad indagine e analisi.

Inoltre, non c’è conflitto tra l’apparizione di tutte queste entità e la loro mancanza di vera esistenza, proprio come negli esempi del riflesso della luna nell’acqua, di un sogno o di un’illusione. La convinzione in questa fase è equivalente alla certezza riguardo all’illusorietà che si sperimenta nella fase di post-meditazione. Sebbene rappresenti una comprensione intellettuale positiva del Mādhyamaka, di per sé non si qualifica come vedere il vero dharmadhātu.

La grande Via di Mezzo oltre l’elaborazione concettuale deve essere compresa attraverso la mera e chiara consapevolezza auto-conoscitiva.

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Dobbiamo quindi generare una forma speciale di certezza all’interno della libertà “come-lo-spazio” dall’elaborazione concettuale che deriva dal vedere direttamente l’effettivo stato di inesprimibile unità. Dobbiamo praticare l’assorbimento meditativo in cui tutti i punti di vista filosofici basati su pensieri di confutazione o prova siano svaniti completamente. Si dice che questo segna il punto in cui si perfeziona una visione analitica sviluppata attraverso lo studio e la riflessione. Tuttavia, il dharmadhātu  quale oggetto di mera e chiara consapevolezza auto-conoscitiva, può essere visto solo attraverso la completa trascendenza dei processi mentali ordinari e non attraverso un’analisi basata sul linguaggio estroverso che non riesce a centrare il punto cruciale. Inoltre, coloro che sono abili nel piazzare la mente grazie alle istruzioni essenziali del loro guru, trovano facile sviluppare la certezza. Dobbiamo quindi capire i punti chiave del percorso senza errori.

L’articolo in originale è stato pubblicato su Lotsawa House

Mipham Rinpoce

Mipham RinpoceJamgön Mipham Gyatso (1846-1912) nacque nella regione del Derge, nel Tibet orientale. All’età di quindici anni, intraprese un ritiro intensivo di 18 mesi su Mañjuśrī.
Più tardi confidò ad alcuni dei suoi studenti che era sempre stato capace di comprendere qualsiasi testo leggesse. Patrul Rinpoce gli insegnò il famoso nono capitolo del Bodhisattvacaryāvatāra, “la Saggezza”, e lui stesso confermò che dopo appena cinque giorni di insegnamento Mipham Rinpoce aveva completamente compreso sia le parole, sia il significato del testo. Mipham Rinpoce ricevette e comprese altresì innumerevoli insegnamenti e trasmissioni di Jamyang Khyentse Wangpo e Jamgön Kongtrül.
Teneva sempre a cuore il famoso consiglio di Je Tsongkhapa di considerare per primo gli insegnamenti come guida pratica per la vita piuttosto che mera speculazione intellettuale. Mipham Rinpoche ha avuto un enorme impatto nel risvegliare un profondo interesse e ammirazione per gli insegnamenti Nyingma e Dzogchen. Il suo contributo al movimento Rimé è inestimabile.

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