La mente e il suo potenziale

La mente e il suo potenziale

Il Buddhismo ha sempre messo la mente al primo posto, riconoscendo che essenzialmente ogni sofferenza e ogni felicità dipendono dalla mente, e che molto spesso attribuiamo la colpa dei nostri problemi alle circostanze esterne, alle altre persone, alla situazione economica, a chi ci governa, a come vanno le cose, al samsara.
Ma se riflettiamo con attenzione, il vero problema è dentro di noi. E questa è davvero un’ottima notizia perché, se è possibile cambiare noi stessi, è molto difficile cambiare il resto del mondo.

Le emozioni negative

Tutte le scuole buddhiste concordano sul fatto che il nostro problema principale sono le emozioni negative, o afflittive, che si trovano nel nostro continuum mentale: il nostro desiderio smodato, la bramosia, l’attaccamento. Quest’ultimo in particolare è un enorme problema perché ci fa provare sia desiderio e brama sia un senso di perdita, ci porta a solidificare qualsiasi cosa, a volere che le cose – quando le consideriamo piacevoli – rimangano esattamente come sono, che le persone rimangano così come sono, che durino per sempre. Ovviamente tutto cambia in continuazione, tutto è impermanente e il solo fatto di provare attaccamento crea stress perché, nel profondo del nostro cuore, sappiamo che nulla dura per sempre.
Non sono quindi gli oggetti, le relazioni, le cose che possediamo a rappresentare il problema. Il problema è il nostro attaccamento.
Quindi, la prima emozione afflittiva è l’attaccamento.

La seconda, altrettanto enorme, è la rabbia, il risentimento, l’irritazione, la frustrazione, l’odio. Sono emozioni che disturbano la mente. Una mente arrabbiata non è una mente felice, pacifica. Ci sono persone che vivono nel risentimento per tutta la vita. Una volta una donna mi ha scritto una lunghissima lettera in cui mi raccontava di come fosse stata truffata da un avvocato e a causa sua avesse perso la casa. Pagine e pagine di lamentele e risentimento. E alla fine salta fuori che il fatto era avvenuto trent’anni prima, ma lei ci stava ancora pensando… E’ evidente allora quanto riusciamo ad essere i nostri peggiori nemici: l’avvocato probabilmente aveva già ottenuto un’altra rinascita, ma la donna continuava a vivere questo senso di ingiustizia, come se il fatto le fosse capitato il giorno prima.
Tutte queste emozioni, o klesa, vengono dette afflittive perchè ci fanno stare male, ci fanno soffrire.

Poi ci sono l’invidia e la gelosia. Qualcuno ottiene qualcosa e invece di rallegrarci per la sua buona sorte ci sentiamo contrariati e ci arrabbiamo perchè avremmo voluto che capitasse a noi anziché a lui.

L’orgoglio e l’arroganza, considerarci superiori agli altri e speciali, ci fanno stare malissimo perché soprattutto quando la gente non ci considera poi così speciali ci arrabbiamo davvero.

Quello che ancora non abbiamo capito

Ma alla radice di tutto questo, la vera radice di questo ciclo ininterrotto di pensieri negativi è l’ignoranza. Nel contesto buddhista “ignoranza” ovviamente non significa non sapere qual è la capitale della Patagonia o non sapere niente di fisica quantistica, ma è la mancanza di comprensione della vera natura di come le cose sono in realtà, non soltanto della realtà esteriore che ci appare, ma soprattutto il fraintendimento della nostra vera natura. La radice di ogni problema è il nostro identificarci con tutte le cose sbagliate, ci identifichiamo con la nostra mente concettuale che pensa e ignoriamo quale sia la nostra vera natura. Ecco perché parliamo di mente e del suo potenziale: la mente non è semplicemente quella che pensa, la mente concettuale. Il cervello è assolutamente affascinante e la neuroplasticità ci dimostra che possiamo cambiare, che non siamo neurologicamente strutturati in ciò che siamo ora, possiamo trasformare la mente che pensa, acquisire nuove abitudini e disciplinare quelle che già abbiamo. È meraviglioso, ma noi siamo di più del nostro cervello.

La mente che pensa è essenziale e utile; di certo non dobbiamo cercare di non pensare e non c’è niente di male ad avere dei pensieri. Il problema nasce quando ci identifichiamo con i nostri pensieri, quando pensiamo “questo sono io”, “questo è mio”. E lo facciamo di continuo.
Ci identifichiamo con il nostro genere, la razza, la nazionalità, la professione, i nostri ricordi d’infanzia, con quello che abbiamo imparato, quello che abbiamo fatto ieri o questa mattina, con le nostre opinioni e giudizi, con le nostre convinzioni: pensiamo che tutto questo sia quello che fa di me “me”.

Questa è, dal punto di vista del Dharma, la nostra essenziale ignoranza, il nostro non sapere. Il termine sanscrito è “avidya” che significa “non sapere”: noi non sappiamo chi siamo veramente.
Per fare un esempio: è un po’ come un attore che interpreta un ruolo e mentre recita vi si identifica completamente, se è un bravo attore diventa il personaggio che sta interpretando. Ma se quando non è sul palcoscenico continua a pensare di essere Amleto vuol dire che ha un problema.

Quindi questo è il punto: certo, interpretiamo un ruolo e lo facciamo al nostro meglio, perché è quello che ci è stato assegnato in questa vita, ma essenzialmente non sappiamo che non siamo solo quello. Al di là del continuo lavorio della nostra mente concettuale, è importante ricordarsi sempre che abbiamo la natura di buddha. Dobbiamo ricordare sempre che la natura essenziale della nostra mente è saggezza e compassione, è una vuota e luminosa chiarezza. Questa è la nostra vera natura.
Il nostro cervello è come un computer, ma qual è l’energia che lo fa funzionare? E’ la corrente elettrica, senza non potrebbe fare nulla.

La nostra consapevolezza primordiale, che è al di là della nostra mente concettuale, è come un cielo azzurro, luminoso e sconfinato. Spesso la nostra mente è coperta da una coltre di nuvole che possono essere leggere o pesanti, ma sono soltanto nuvole e ci dimentichiamo che dietro c’è comunque il cielo. Ci lasciamo affascinare dalle nuvole e finiamo con l’identificarci con esse. Eppure siamo il cielo, vasto e sconfinato. A volte l’idea del cielo è più utile dell’idea della natura di buddha, perché c’è sempre il rischio di pensare che ognuno di noi possieda la sua piccola natura di buddha: “la mia natura di buddha è molto più pura della tua”.
E’ importante capire che non c’è un piccolo buddha seduto dentro ognuno di noi. La consapevolezza primordiale è non-dualistica: nel nostro abituale modo di pensare c’è sempre un soggetto e un oggetto, è un modo di pensare dualistico. La natura della mente trascende questa separazione dualistica e quindi c’è un enorme senso di interconnessione, non solo con gli esseri umani, ma con tutti gli esseri viventi e la natura, non ci sono confini e tutti partecipiamo di questa coscienza primordiale. Questa è la nostra natura. Non è qualcosa di lontano e separato. Il solo fatto che potete sentirmi, vedermi e pensare a ciò che sto dicendo avviene perché siamo coscienti, ma normalmente siamo così assorbiti dai nostri pensieri che non siamo consapevoli di essere consapevoli. E’ qualcosa difficile da vedere perché che ci è così vicina che è come i nostri occhi, ci è impossibile vederli: poiché la consapevolezza è la nostra vera natura è difficile vederla senza che interferisca nuovamente il pensiero concettuale. Ma la consapevolezza è lì ed è ciò che siamo.

Diventare consapevoli

Ogni giorno ci troviamo ad affrontare le emozioni negative e la sofferenza che causano. Nella nostra quotidianità così stressante – il lavoro, la famiglia, la vita sociale, gli impegni – è davvero molto importante, come ha ribadito tante volte il Buddha, cercare di essere consapevoli, coltivare al nostro meglio la qualità della consapevolezza, il che significa che quando stiamo facendo qualcosa ce ne rendiamo conto, sappiamo che cosa stiamo facendo, non facciamo una cosa e nel frattempo pensiamo ad altre mille. Viviamo in un’epoca che dà grande enfasi all’efficienza e la cosa più efficiente da fare è mantenere la mente dove è il corpo: quando siamo seduti, sappiamo di essere seduti; se stiamo ascoltando, sappiamo che stiamo ascoltando. La nostra vita è diventata così complicata, ma è importante renderla più semplice e soprattutto non trasformare la pratica del Dharma in qualcosa di ancor più complicato. Il Dharma dovrebbe alleggerire la nostra esistenza, permetterle di scorrere in maniera più spontanea e non aggiungere in un ulteriore macigno da trascinarci sulle spalle per il resto della nostra vita.

Tutte le tradizioni buddhiste concordano sul fatto che dobbiamo diventare maggiormente consapevoli della nostra mente e del suo funzionamento in modo tale che quando sorgono le emozioni negative – brama, rabbia, gelosia, orgoglio – ce ne rendiamo conto. Uno dei modi più veloci per gestire le nostre emozioni negative, che causano così tanta sofferenza a noi stessi e agli altri, è semplicemente prenderne atto – “in questo momento mi sento arrabbiata” – e poi decidere che cosa fare, se alimentarle o applicare un antidoto, come la pazienza nel caso della rabbia.
Quel che conta è anche non farne un dramma: se siamo arrabbiati non c’è bisogno di arrabbiarci ulteriormente perché proviamo questa emozione e anziché manifestarla all’esterno rivolgerla contro di noi. Non serve e certo non risolve la situazione in cui ci troviamo.

Dobbiamo diventare consapevoli di quelle che sono le nostre intenzioni: i nostri pensieri influenzano completamente quello che diciamo e facciamo e quindi dobbiamo imparare a coglierli prima che si trasformino in azione. Dobbiamo chiederci con onestà qual è la nostra vera motivazione e se è mescolata con la rabbia, l’irritazione, con la bramosia o un desiderio negativo, con invidia o con altre afflizioni dell’ego possiamo rendercene conto. Un’intenzione negativa conduce necessariamente a parole e ad azioni negative. E’ molto semplice. Il problema è che abitualmente siamo trascinati dal flusso dei nostri pensieri, parliamo ed agiamo prima ancora di essere consapevoli del perché lo stiamo facendo.

Si tratta semplicemente di sviluppare la capacità di fare un passo indietro e osservare che costa sta realmente accadendo prima di lanciarci in azioni fisiche o verbali. Poi possiamo cercare di avere sempre intenzioni gentili: vivremmo davvero in un mondo molto diverso se tutti fossero un po’ più gentili. Sua Santità il Dalai lama dice sempre che la sua religione è la gentilezza e la gentilezza trascende qualsiasi tipo di divisione religiosa. La gentilezza è il desiderio che gli altri siano felici, è riconoscere che essere concentrati esclusivamente sulla propria personale felicità non farà altro che renderci più infelici e insoddisfatti.

La gente investe un’enorme quantità di tempo cercando di essere felice, compra una marea di cose di cui non ha neppure bisogno, è ossessionata dal cibo, dalla forma fisica, dalla casa, dall’auto. È una ricerca incessante e frenetica, è come correre su un tapis roulant: si fa una gran fatica, ma alla fine non si arriva da nessuna parte.

Tutti vogliamo la felicità

Ma se riuscissimo a vivere le nostre giornate riconoscendo che ogni persona che incontriamo desidera la felicità e non vuole essere infelice – poco importa se è maleducata, difficile, indifferente – che anche lei, proprio come noi, in fondo al suo cuore desidera solo sentirsi bene e non essere triste, allora potremmo estendere a tutti l’augurio di stare bene. Potremmo vivere la nostra vita incontrando chiunque – i conoscenti, la nostra famiglia, i colleghi, gli estranei – e il nostro primo pensiero sarebbe quello di augurargli di essere felice. Passeremmo le nostre giornate pensando al benessere e alla felicità degli altri. Non è poi così difficile.

Com’è possibile che noi esseri umani, che ci sentiamo così fieri della nostra intelligenza, convinti di essere superiori a qualsiasi altro essere vivente sul pianeta e dotati di un così grande potenziale – perché alla fine siamo tutti buddha – finiamo con l’essere sempre così cattivi? Com’è possibile che causiamo sempre così tanti problemi a noi stessi, al nostro prossimo e al pianeta? La ragione è la nostra familiarità con le emozioni negative.
La buona notizia, però, è che le emozioni negative sono avventizie, il che significa che non sono innate. La nostra saggezza e compassione sono innate, le emozioni afflittive sorgono ma non sono permanenti, non sono parte di ciò che realmente siamo ed è proprio per questo che possono essere trasformate o sradicate.

Per natura non siamo malvagi, per natura siamo perfetti ma ci siamo smarriti. Ma così come ci siamo abituati ad avere familiarità con le emozioni negative possiamo anche trasformarle in stati mentali positivi.

Possiamo iniziare a considerare le persone che abitualmente ci irritano e ci fanno arrabbiare come estremamente utili per noi. È un punto molto importante: per coltivare determinate qualità abbiamo necessariamente bisogno di avere a che fare con il loro opposto. Per trasformare la nostra rabbia e irritazione in tolleranza e pazienza abbiamo bisogno di situazioni e persone irritanti. Tolleranza e pazienza sono menti molto forti e potenti, ma comunemente vengono considerate forme di debolezza. In realtà è chi si arrabbia e si irrita quando si sente contrariato a essere debole. Pensate a tutti gli eroi dei film d’azione: sono dei gran smidollati che sanno solo rispondere a un’aggressione con un’aggressione. Questo non è essere forti. Essere forti significa saper trasformare un’aggressione in qualcosa di estremamente potente.

Imparare la pazienza

Quando abbiamo a che fare con qualcuno che ci dà veramente fastidio, anziché arrabbiarci possiamo riconoscere che quella persona, o situazione, ci sta realmente aiutando sul sentiero perché senza qualcuno che ci irrita come possiamo imparare a essere pazienti? Se siamo sempre circondati da persone gentili e amichevoli è facilissimo essere gentili e amichevoli, ma non impariamo nulla. È facile essere carini con chi è carino con noi.

Il punto è sviluppare la capacità di essere amichevoli e pazienti anche verso chi si comporta in maniera odiosa. Pertanto, se incontriamo una persona difficile, anziché arrabbiarci con lei e considerarla un ostacolo al nostro essere “persone spirituali” dovremmo pensare “Grazie di cuore per essere così insopportabile! Mi sarai di grandissimo aiuto con la mia pratica, perché la pazienza e la tolleranza sono qualità importantissime, indispensabili sul sentiero del bodhisattva verso l’Illuminazione e senza qualcuno come te – che sei veramente tremendo – come potrei impararle?”

Nei sutra si dice di porre queste persone sul nostro capo come se fossero i nostri maestri. L’importante, in ogni caso, è pensare “Questa è la mia pratica e quindi ti ringrazio” e provare una sorta di gratitudine verso chi è difficile nei nostri confronti. In questo modo diventiamo più forti e soprattutto andiamo al di là della speranza e della paura perché abbiamo capito che anche nelle circostanze più difficili della nostra vita c’è qualcosa che possiamo imparare, molto di più di quando viviamo una situazione semplice.

Una volta in India, dopo 12 anni di ritiro sull’Himalaya, accompagnai un mio amico da un astrologo e gli raccontai che per il futuro avevo due opzioni: ritornare in ritiro oppure aprire un monastero femminile. L’astrologo fece un consulto e mi disse: “Se riprendi il ritiro tutto sarà molto pacifico e utile, sarai molto felice. Se apri un monastero femminile incontrerai molte difficoltà, molti problemi, molte sfide. Ma entrambe le opzioni sono buone, quindi… decidi tu”. Così naturalmente pensai “Ottimo, me ne torno in ritiro”, ma poi ho parlato con un sacerdote cattolico e lui mi ha detto: “Devi aprire un monastero femminile, è ovvio! Tutti noi siamo come pezzi di legno grezzo; massaggiare il nostro ego con seta e velluto è sicuramente piacevole, ma non diventiamo certo più lisci. Per ammorbidirci abbiamo bisogno della “carta vetrata”.

Le persone e le circostanze difficili che incontriamo nella vita sono la nostra carta vetrata che ci rende più “levigati”, che ci fanno risplendere. Sono davvero importanti. Questo naturalmente non significa che quando ci troviamo in una situazione di abuso dobbiamo accettarla e continuare a subire; quel tipo di situazione va contrastata e gestita con determinazione e forza. Ricordiamoci che Cenresig, il bodhisattva della compassione, raffiguarato bianco, sorridente, radiante luce e pacifico, ha anche un aspetto adirato, Mahakala, il capo di tutti i protettori nel buddhismo tibetano, nero, arrabbiatissimo e con un aspetto che incute terrore a significare che talvolta le forze negative o le difficoltà non possono essere superate con mezzi pacifici, a volte bisogna adottare mezzi più drastici, anche se l’energia che ne sta alla base non è mai la rabbia, ma la compassione. E’ un po’ come con i bambini piccoli: non si può dire loro con grande dolcezza, calma e tranquillità “per favore, tesoro potresti non mettere le manine nell’acqua bollente!” quando stanno per ustionarsi.

Diventare ciò che siamo

Dobbiamo comprendere che siamo al mondo per imparare, per crescere e per diventare esseri umani maturi e alla fine sviluppare il pieno potenziale della nostra mente, l’illuminazione. Quindi, a parte i periodi in cui siamo in ritiro, è la vita di tutti i giorni la nostra pratica di Dharma. La vita quotidiana non è un ostacolo alla pratica, è la pratica stessa.

Imparare a coltivare qualità come la generosità, la pazienza, l’entusiasmo, l’etica, la qualità di essere presenti nel momento presente, comprendere davvero che cosa sta pensando la mente, sradicare o trasformare il negativo e incoraggiare e coltivare il positivo per fare realmente tutto il possibile per il bene degli altri esseri senzienti che stanno facendo questo viaggio con noi: questo è essenziale.

La famiglia, gli amici, i colleghi, tutta la nostra vita sono la nostra pratica di Dharma perché ogni cosa è vissuta attraverso la mente e quindi, che siamo in ritiro, in mezzo ai parenti o in ufficio, la nostra mente è sempre con noi e il modo in cui la coltiviamo è il punto essenziale. Nessuno può farlo al posto nostro. Se anche il Buddha in persona fosse qui con noi non potrebbe fare altro che dirci “praticate!”.

La pratica rende perfetti, praticare ci permette di sapere che cosa c’è nella nostra mente, trasforma ciò che c’è di negativo in positivo e spalanca il nostro cuore a tutti gli esseri, con gentilezza e compassione. Usare qualunque circostanza per trasformare la mente e la vita vale davvero la pena e quando verrà il momento della nostra morte potremo guardarci alle spalle e sapere che abbiamo dato un senso alla nostra esistenza, che non l’abbiamo sprecata, ma usata per il beneficio nostro e per quello degli altri esseri senzienti. Abbiamo fatto del nostro meglio e ora siamo pronti per andare.

Vi prego, col cuore, di ricordate che abbiamo la natura di buddha. Ogni volta che abbiamo un impulso di compassione, di gentilezza, di spontaneo interesse per gli altri, prima che per noi stessi, quella è la nostra natura di buddha che ci sta chiamando, ricordandoci chi siamo davvero. Stiamo solo interpretando un ruolo, a volte con successo a volte no, ma è solo un ruolo. Non è la nostra vera natura.

Tradotto dal video Mind and its potential

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Edizione: brossura, 104 pp.
ISBN 9788894287318

I sei insegnamenti qui contenuti sono stati dati da Lama Yeshe durante la sua visita in Australia nel 1975. I primi tre sono una serie di letture serali consecutive che il Maestro ha tenuto presso l’Università di Melbourne, gli altri sono stati dati a Sidney. Sono insegnamenti colmi d’amore, intuizione, saggezza e compassione, e le sessioni di domande e risposte, molto amate da Lama Yeshe, sono dinamiche e molto ricche come sempre.

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