Praticare al limite

Praticare al limite

Quando cerco d’immaginare la mente del Buddha, penso a una mente senza confini, senza limiti e, di conseguenza, senza paura ed è in questa stessa prospettiva che guardo al nostro percorso verso l’illuminazione.

Mentre impariamo ad aprirci ci avviciniamo ai limiti di ciò che ci è familiare o che ci fa sentire a nostro agio ed è esattamente con il raggiungimento di questi limiti che si innesca il meccanismo innato che porta alla paura – ci troviamo a essere spaventati dalla realtà del momento. Dobbiamo, quindi, imparare a gestire questa paura altrimenti le nostre vite si frammentano, ci separiamo da parti di noi stessi.

Nella meditazione, quando raggiungiamo il confine tra tranquillità e ansia, possiamo gradualmente addestrarci a rilassarci e ad aprici, una pratica che ci aiuta a sviluppare solidità mentale ed equanimità.  Il primo passo da compiere è quello d’imparare a comprendere ciò di cui abbiamo paura. In questo modo possiamo focalizzarci meglio, riconoscere i nostri limiti e successivamente esplorare la possibilità di andare oltre tali limiti. 

L’esperienza più comune che può portare all’insorgere della paura, e quella che possiamo gestire più facilmente, è la sofferenza fisica. Nella nostra vita siamo stati addestrati a fondo a evitare le situazioni spiacevoli e questo si riflette anche durante la meditazione. Se non siamo del tutto concentrati e consapevoli, automaticamente cambiamo la posizione al sol fine di alleviare il malessere. C’è un detto nel buddhismo che recita “il movimento maschera il malessere.” Di solito pensiamo che ci muoviamo perché abbiamo bisogno di qualcosa ma se guardiamo la cosa da un’altra prospettiva, ci rendiamo conto che spesso ci muoviamo solo per evitare di dover gestire il momento presente. Un esercizio molto istruttivo che possiamo fare ogni giorno è investigare le ragioni che ci portano a muoverci – questa realizzazione ci porta a cambiare il modo in cui ci relazioniamo con il disagio e il dolore. 

Per elaborare abilmente il dolore e il disagio, e per iniziare a destrutturare la nostra risposta alla paura, dobbiamo imparare a riconoscere le varie forme del dolore. Per primo abbiamo il dolore come segnale di allarme – mettiamo la mano su fuoco, brucia, la leviamo. Il Dalai Lama chiama questa risposta condizionata “paura salutare”, che altro non è che un’altra parola per descrivere la saggezza. 

Possiamo, inoltre, sperimentare dolore a causa di vecchi  traumi o tensioni che si accumulano. Spesso durante la meditazione, è il loro allentarsi che provoca il disagio che sperimentiamo. Comprendere il disagio come un processo di allentamento e di distensione può stimolarci e   facilitare le cose.

Nella nostra pratica ci sono momenti particolari, di profonda intuizione e comprensione che vengono accompagnati da una singolare sensazione di disagio. E’ bene essere consapevoli di questo perché, nonostante la nostra abitudine a classificare ciò che è piacevole come buono e il disagio come negativo, una sessione dolorosa può significare  un momento di pratica più intensa e profonda di ciò che possiamo sperimentare durante una sessione più confortevole. 

Quindi, la prima istanza che può dare origine al disagio e all’apprensione è la sofferenza fisica. Quando arriviamo al punto di confine, al limitare di ciò che è accettabile è proprio lì che dobbiamo focalizzare la nostra pratica. Può essere, inoltre, molto utile portare la nostra attenzione su dolore stesso, imparando a conoscerlo e a esserne consapevoli. Possiamo considerare  la consapevolezza come una sorta di finestra aperta; tutto ciò che conosciamo  altro non è che apparenze, cose che nascono nello spazio aperto di quella finestra ma tale apertura non è influenzata da ciò che in essa appare. Nella misura in cui noi perduriamo  in tale apertura, dimoriamo nell’equanimità.

Ma il limite della nostra zona di comfort lo raggiungiamo anche grazie alle immagini e ai ricordi che affiorano nella nostra mente. Essi possono essere ricordi specifici di momenti del nostro passato o possono essere degli archetipi di situazioni caratterizzate da crudeltà o collera. Se perdiamo la consapevolezza nel momento in cui sorgono, possiamo sperimentare sgomento e paura. 

Quando il mio maestro Munindra* arrivò per la prima volta nel nostro paese, mi chiese di affittargli delle videocassette di film particolarmente violenti come il classico dell’horror Non aprite quella porta.  Egli continuava a incitarmi “fammi vedere il peggio del peggio!” Mi stava dimostrando che indipendentemente da quanto fosse spaventoso, non era altro che un insieme d’immagini, un film. Lo stesso vale anche per quanto sorge nella nostra mente – se lo teniamo presente, possiamo guardare con distacco le immagini che sorgono e non siamo più in preda alla paura. 

Una storia Zen racconta di un monaco che viveva da eremita in una grotta nelle montagne. Egli trascorse anni a dipingere una tigre su una delle pareti. La rese così realistica che quando l’ebbe terminata si prese paura.

Noi spesso facciamo la stessa cosa – dipingiamo immagini nella nostra mente, immagini così verosimili che ci spaventano. Quando ciò accade sarebbe utile ricordarsi la frase: “dipinto della tigre”. Non dobbiamo cedere alla paura. 

La paura può sorgere anche quando non riusciamo ad accettare emozioni difficili o dolorose come la sensazione di essere indegni, la gelosia, la rabbia, l’odio. La paura  e la non-accettazione delle emozioni portano insicurezza e frammentazione, come se una parte di noi si stesse sgretolando. Spinti dalla pressione a non riconoscere queste emozioni, di negarle, creiamo un’immagine di noi stessi che poi presentiamo al mondo. Cerchiamo l’approvazione degli altri perché non abbiamo aperto il nostro cuore e non siamo in grado di accettare tutto lo spettro di ciò che è in noi.

Per la nostra pratica è fondamentale che ci apriamo a queste emozioni disturbanti così come abbiamo imparato ad aprirci al dolore fisico. Questo non significa ricercare chissà quale catarsi emotiva, ma quando sorgono le sensazioni spiacevoli dobbiamo realizzare che spesso ci portano al limite  della nostra zona di comfort e che quello è il posto nel quale noi vogliamo essere, un luogo dove praticare l’accettazione e l’apertura. 

In questo contesto, il grande potere della meditazione è che ci porta a una graduale realizzazione della natura trasparente, insostanziale e vuota che è propria anche delle emozioni più forti. Ogniqualvolta che sorgono emozioni intense come l’ira o l’inadeguatezza, dobbiamo guardarle come se fossero dei bambini travestiti per la festa di Halloween – fantasmi, pirati e streghe che non incutono timore alcuno. Dobbiamo riuscire a vedere le emozioni che sorgono nella nostra mente allo stesso modo: bambini che si travestono per gioco.

Così come per il dolore, particolari immagini o intense emozioni, possiamo raggiungere il limite anche a seguito di una esperienza di cambiamento o di perdita. Il Buddha spesso diceva che  “ciò che ha la natura del sorgere, alla fine scomparirà” – una frase che spesso ha portato l’uditore , ormai pronto, a ottenere l’illuminazione. Anche se il significato di queste parole è abbastanza ovvio, spesso non sondiamo a fondo la loro profondità. Tutto ciò che è condizionato, costruito, ha in sé il decadere e lo scomporsi – l’impermanenza. Non si tratta di qualcosa che non ha funzionato bene o di un errore nella fabbricazione, ma bensì che ogni singolo aspetto della nostra esistenza è nella natura del cambiamento. Non volersi aprire all’accettazione della verità del cambiamento e dell’impermanenza spesso porta alla paura della morte. Al fine di liberare la nostra mente dai legacci di questo pensiero angoscioso, il Buddha consigliava di riflettere quotidianamente sull’inevitabilità della morte. 

Una storia che viene usata spesso durante gli insegnamenti è quella di una persona che si getta da un aeroplano in volo. La reazione iniziale è di esaltazione e di estrema libertà poi, quando si accorge di essere senza paracadute, subentra il terrore della morte fino a quando non realizza che non c’è terreno sotto di lui e si rilassa e si gode l’esperienza. Nel corso della meditazione, man mano che comprendiamo la verità del cambiamento,  anche noi attraversiamo momenti come questi; passiamo dall’esaltazione, alla paura, a uno stato di equanimità e di agio nel quale comprendiamo la natura di vacuità delle cose. 

Alcune considerazioni finali su come gestire la paura. Innanzitutto, dobbiamo riconoscerla quando sorge rivolgendosi a essa con il suo nome: “paura, paura, paura”, con tono aperto e amichevole che denota un atteggiamento di accettazione. Relazionarsi con la paura adottando un atteggiamento di amorevole gentilezza e d’interesse per ciò che la scatena, ci darà il coraggio necessario per gestire al meglio la situazione. 

Durante la meditazione possiamo fare qualche esperimento di avvicinamento alla nostra zona di comfort: magari può essere il rimanere seduti un po’ più a lungo oppure quello che il mio maestro, Goenka-ji, chiamava “le ore dell’impegno” – un periodo di tempo durante il quale noi facciamo voto di non muoverci per nessuna ragione. Questo può portarci al limite di dove vogliamo essere e in quell’occasione può sorgere un profondo disagio.  Allenandoci in questo modo impariamo a rilassarci, ad accettare che: “va tutto bene; accolgo questa sensazione”. Naturalmente, necessitiamo anche della saggezza che ci fa capire quando la sofferenza o il dolore sono troppo per noi – a qual punto dobbiamo fare un passo indietro fino al raggiungimento del giusto punto di equilibrio.

Il Dalai Lama, nella sua infinita saggezza, ci ha dato un semplice consiglio: “se avete paura del dolore o del disagio, dovete capire se c’è qualcosa che potete fare per alleviarlo. Se c’è, allora non dovete preoccuparvi; se non c’è,  allora non ha senso preoccuparsi lo stesso”.

*Anagarika Shri Munindra (1915 – 2003), chiamato anche Munindraji dai suoi discepoli, è stato un insegnante di meditazione Vipassanā indiano. Tra i suoi studenti vi sono alcuni importanti insegnanti di meditazione tra cui Dipa Ma, Joseph Goldstein, Sharon Salzberg  e Surya Das. Anagarika significa semplicemente un buddhista praticante che conduce una vita nomade senza attaccamento per concentrarsi sul Dhamma .

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Joseph Goldstein è  il co-fondatore e principale insegnate della Insight Meditation Society di Barre, nel Massachusetts, e del Forest Refuge Program. Inoltre, ha contribuito a sviluppare il Barre Centre for Buddhist Studies. I suoi libri più recenti sono A Heart Full of Peace e One Dharma: The Emerging Western Buddhism.  

Articolo pubblicato su Tricycle e tradotto da Ivano Colombo

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