Shenpa, la viscerale esperienza dell’attaccamento all’ego

Shenpa, la viscerale esperienza dell’attaccamento all’ego

Il termine tibetano shenpa può essere definito come “ciò che lega la mente senziente al samsara”. Troviamo shenpa nei nostri concetti, nelle nostre reazioni e nei nostri sentimenti. Un modo diretto per parlare di shenpa è dire che si riferisce all’esperienza viscerale dell’attaccamento all’ego. Quando diventiamo rossi in viso e reagiamo intensamente, o ci aggrappiamo disperatamente, sentiamo il dolore di tutte queste cose nello stomaco o nel petto. Questo è il segno di shenpa. Quando seguiamo abitualmente i dettami dei nostri shenpa, questi creano solo altro dolore e ci indirizzano verso la sofferenza.

Il motivo per cui studiamo e pratichiamo il Buddhadharma è imparare a lavorare con la nostra mente. Ne abbiamo bisogno soprattutto nei momenti difficili, quando la nostra mente non è amichevole, quando ci spaventa al punto che preferiremmo non avere a che fare con lei. Il Dharma ci insegna a osservare la mente e a familiarizzare con il suo funzionamento. Impariamo quali sono i suoi schemi, come va fuori controllo e come minaccia noi e gli altri. In sostanza, il Dharma coltiva la nostra intelligenza. Permette a una persona intelligente di liberarsi da abitudini, impulsi e reazioni che normalmente dominano la mente. Così, quando lo slancio e la potenza della nostra “mente impazzita” iniziano a prendere il sopravvento, non ci sentiamo come piume al vento. 

Nel Buddhismo si parla molto della falsa credenza in un ego, o in un sé, e di come l’aggrapparsi a quel sé crei sofferenza. A volte il concetto di aggrapparsi al sé può sembrare astratto. Cosa si prova quando ci si aggrappa all’io? È importante riuscire a identificare questa esperienza. La convinzione del sé a cui ci aggrappiamo deve essere esaminata attraverso la meditazione analitica e un ragionamento chiaro. Possiamo esaminare direttamente la falsa credenza nel sé osservando l’esperienza cruda e viscerale dell’aggrapparsi al sé e la sofferenza che produce. In tibetano, questo attaccamento è chiamato shenpa. Non si può separare shenpa dall’attaccamento all’ego: sono aspetti diversi della stessa cosa. Ma se dovessimo distinguerli, potremmo dire che shenpa è l’energia e lo slancio dell’attaccamento al sé. 

Shenpa guida le nostre abitudini, i nostri impulsi e le nostre reazioni automatiche e dobbiamo sottoporlo alla nostra intelligenza per vedere attraverso il suo slancio. Shenpa viene generalmente tradotto come “attaccamento”, ma non possiamo ridurlo a un solo termine: in effetti si tratta piuttosto un disagio pervasivo; è l’esperienza di “io, me e mio” e di tutti i desideri, i bisogni, le antipatie, le speranze e le paure che ne derivano. Ecco perché shenpa si trova sia nell’attaccamento sia nell’avversione, nella stupidità, nell’orgoglio e nella gelosia. Può essere un disagio vago e sottile, “un sassolino nella scarpa” o “un fastidioso brusio di sottofondo”. Oppure, se l’ego viene messo fortemente in discussione, è l’insieme doloroso delle cinque emozioni negative. Shenpa è il succo del nostro ego e si manifesta quando ci riteniamo davvero importanti: pensiamo a tutto in termini di ciò che vogliamo o non vogliamo dalla nostra vita, di ciò che ci aiuta o ci ostacola, di ciò che speriamo o temiamo. Ci sforziamo di sistemare e mantenere il mondo secondo le nostre preferenze. È un’impresa onerosa e impossibile e ci espone a enormi sofferenze. Anche se le nostre emozioni non sono selvagge e folli, la nostra lotta interiore, la nostra sensazione di non essere mai soddisfatti e in pace, rimarrà forte. 

Shenpa definisce la qualità della nostra vita emotiva, e non in modo positivo. Ci lascia solo due scelte nel rapportarci alle nostre emozioni: possiamo rifiutarle o dar loro libero sfogo. Quando rifiutiamo o reprimiamo le nostre emozioni, è solo una questione di quanto sia saldo il coperchio della pentola a pressione. Se la pentola continua a stare sul fuoco, non importa quanto sia pesante il coperchio e quanto ben fissato, a un certo punto esploderà. E anche se non esplode, il cibo all’interno sarà troppo cotto. 

La soppressione delle emozioni è una forma di violenza nei confronti di noi stessi: giudichiamo automaticamente come negative la nostra esperienza e le nostre emozioni e ci identifichiamo con esse in modo personale. 

Ovunque ci sia avversione, si produce una storia. Rifiutare ciò che si presenta è un’espressione di shenpa, basata sempre su preferenze volte a proteggere il proprio io, lasciandoci amareggiati e perseguitati dalle difficoltà. Invece di reprimere, l’altra faccia della medaglia è sfogarsi. Qualcosa ci preoccupa, una tempesta emotiva si sta scatenando e siamo subito pronti a salire sul ring con i guantoni. All’inizio di questo slancio, c’è anche una forza trainante di eccitazione, l’eccitazione di vedere chi vincerà. E le conseguenze non sembrano poi così male. Ma se ci capita più volte al giorno, con i genitori, con il coniuge, con i figli, con le persone che dovremmo amare e di cui ci prendiamo cura, o anche solo con la nostra mente, allora questo ci logora e porta le relazioni a un punto doloroso. Quindi, alla fine, sfogarsi non serve a nulla, anche se può sembrare di affrontare la verità. In realtà, sfogare le nostre emozioni è solo un altro modo per cercare di liberarcene.

Sia rifiutare sia assecondare la nostra esperienza indica che, in qualche modo, non comprendiamo la natura della nostra mente e delle nostre emozioni, che siamo intimiditi dalla nostra esperienza e che siamo vincolati dalle preferenze della nostra autostima. Dobbiamo familiarizzare con i meccanismi e le conseguenze di shenpa e dell’autostima per poterli superare. Allora non avranno più presa su di noi. 

Nel monastero vicino a dove sono cresciuto si svolgeva ogni anno la danza del leone delle nevi. Noi bambini eravamo eccitati ma anche spaventati perché sapevamo che alla fine i leoni ci sarebbero saltati addosso terrorizzandoci. Crescendo e vedendo quell’evento anno dopo anno, la paura iniziò a svanire. La danza non era cambiata, ma la nostra mente era maturata, perché avevamo capito che i leoni delle nevi erano solo dei monaci che indossavano delle maschere. Questa comprensione ci ha liberato dalla paura. In modo simile, smascherare la natura del nostro shenpa e della nostra autostima ci mette sul sentiero della pace. Esporre shenpa alla nostra intelligenza significa farlo uscire dai recessi nascosti e bui della nostra mente per portarlo alla luce della nostra consapevolezza. 

La chiave di questo processo è osservare le nostre abitudini, i nostri impulsi e le nostre emozioni senza giudicare. Si può chiamare “pratica di confessione” perché si accettano gli aspetti più impegnativi della mente, anziché cercare di nasconderli o manipolarli; si può chiamare coraggio; si può chiamare onestà: qualunque sia l’etichetta, ha comunque una qualità liberatoria. 

Il dolore di fondo di shenpa inizia a sciogliersi come ghiaccio quando viene esposto al calore della nostra consapevolezza. L’accettazione sostituisce la lotta tra rifiuto e indulgenza. Cresce l’apprezzamento per il vero carattere della nostra mente. L’atteggiamento principale sul sentiero della pace è quello di accettare qualsiasi cosa ci porti la nostra esperienza. 

Quando parliamo di non indulgere o di non reprimere, non significa che non usiamo la nostra intelligenza discriminante, significa semplicemente che non reagiamo da uno stato vago o timoroso in cui questa intelligenza è schiava delle nostre speranze e paure. Partendo da un punto di vista chiaro, sappiamo perché prendiamo le decisioni che prendiamo e dove intendiamo andare con i nostri percorsi e le nostre vite, invece di essere travolti dai nostri shenpa. Anche nel bel mezzo di una tempesta emotiva, quando il nostro shenpa è fortemente attivato, non dobbiamo vedere le nostre reazioni abituali come problemi in sé. Il problema è sempre stato la nostra paura e la nostra mancanza di chiarezza. Quando vedremo chiaramente, potremo capire che shenpa, l’ego e le emozioni che l’ego genera fanno tutti parte della mente umana e possiamo lavorarci. Relazionandoci alle emozioni senza rifiuto e indulgenza, possiamo esaminarle liberamente perché non sono più così personali. Questa è l’intelligenza emotiva, un segno che la nostra mente sta maturando come praticante. Possiamo vedere da soli come l’intelligenza emotiva chiarisca non solo il rapporto con la nostra mente, ma anche quello con gli altri. Questo porterà stabilità e pace nella nostra vita.

Tradotto da Light Comes Through – Buddhist Teachings on Awakening to Our Natural Intelligence SHAMBHALA BOSTON & LONDON 2011

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