La cosa più importante che chi come noi cerca di raggiungere l’illuminazione può fare è analizzare a fondo le azioni del corpo, della parola e della mente. Ciò che determina se le nostre azioni sono positive o negative, morali o immorali, è la motivazione, l’atteggiamento mentale che ci spinge ad agire. È fondamentalmente l’atteggiamento mentale che rende positive o negative le nostre azioni.
A volte, però, non ci è del tutto chiaro che cosa è positivo e che cosa è negativo; non sappiamo che cos’è la moralità e perché dovremmo seguirla. In realtà è molto semplice, possiamo stabilirlo scientificamente. Le azioni morali, o etiche, sono quelle che derivano da un atteggiamento mentale positivo; le azioni immorali, o non etiche, sono l’esatto contrario.
Quando parliamo di Hinayana e Mahayana la differenza sembra solo filosofica o dottrinale, ma quando esaminiamo questi due veicoli dal punto di vista pratico ci rendiamo conto che, sebbene letteralmente yana significhi veicolo – qualcosa che vi porta da dove vi trovate ora a dove volete arrivare – il veicolo interiore si riferisce all’atteggiamento mentale.
Il praticante che, avendo chiaramente compreso la natura insoddisfacente e dolorosa del samsara, cerca la liberazione dall’esistenza ciclica per se stesso anziché che l’illuminazione a beneficio di tutti gli esseri senzienti ha un atteggiamento mentale egocentrico, non ha tempo per tenere in considerazione anche i problemi degli altri esseri senzienti: “I miei problemi sono il problema principale, devo liberarmene una volta per tutte”. Questo tipo di atteggiamento mentale, che cerca la realizzazione del nirvana per se stessi soltanto, si chiama Hinayana.
Maha significa grande e, come prima, yana significa veicolo interiore; ma che cosa rende grande questo veicolo? Ancora una volta, yana implica un atteggiamento mentale e in questo caso lo chiamiamo bodhicitta, ovvero la determinazione a liberarsi dall’attaccamento al sé e dall’ossessione per il benessere del proprio ego per raggiungere l’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri senzienti.
Spesso diciamo “voglio l’illuminazione” ma, se non stiamo attenti, la nostra visione spirituale e la nostra pratica possono diventare persino materialistiche. Coloro che hanno realmente l’atteggiamento interiore della mente di bodhicitta cercano l’illuminazione esclusivamente per il bene degli altri e così diventano autentici praticanti Mahayana. Chi cerca la realizzazione solo per sé, mosso solo dalla preoccupazione per i propri problemi nel samsara, è considerato un praticante hinayana.
Perché consideriamo questi veicoli degli atteggiamenti? Un veicolo è qualcosa che vi trasporta: nel caso dell’Hinayana, alla liberazione; nel caso del Mahayana, all’illuminazione.
Si discute molto di Hinayana e Mahayana. Possiamo spiegare a parole in che cosa consistono, ma in realtà dobbiamo capirli a un livello molto più profondo. Può darsi che ci consideriamo praticanti Mahayana ma, di fatto, siamo praticanti del sentiero Hinayana. Ciò che siete non è determinato da ciò di cui parlate o da cosa dichiarate di essere, ma dal vostro livello mentale. Questo è il metodo per distinguere i praticanti Mahayana da coloro che non lo sono.
Il lam-rim spiega l’intero sentiero. Inizia con l’Hinayana e continua attraverso il Mahayana per condurre gradualmente i praticanti fino all’illuminazione. Dimostra il modo in cui è necessario procedere, passo dopo passo. Il metodo più realistico per addestrare la mente è seguire i differenti stadi secondo quanto descritto nel lam-rim. Non potete saltare dei passaggi, blazare in avanti, pensando di essere troppo intelligenti per le prime preliminari. Inoltre, per arrivare a provare una sincera preoccupazione per la felicità degli altri, invece di mettervi sempre al primo posto, dovreste cominciare a comprendere i vostri problemi. Questa esperienza viene acquisita proprio durante fasi iniziali del sentiero.
C’è una preghiera che recita
Proprio come io sono caduto nel mare del samsara,
così è anche per tutti gli esseri migratori-madre.
Vi prego, beneditemi affinché possa rendermene conto e sviluppare la suprema bodhicitta,
assumendomi la responsabilità di liberare gli esseri migratori.
Questa preghiera significa che prima dobbiamo vedere che noi stessi stiamo annegando nell’oceano della sofferenza del samsara e solo dopo possiamo veramente comprendere la situazione in cui si trovano gli altri. Poi, grazie a questa comprensione, non solo dovremmo desiderare di alleviare le loro sofferenze, ma anche assumerci la responsabilità personale della loro liberazione e della loro illuminazione; dobbiamo generare la determinazione di condurre tutti gli esseri senzienti all’illuminazione. Questo è l’atteggiamento che chiamiamo bodhicitta.
In realtà, che cos’è la bodhicitta? E’ quello che spiega questa preghiera: prendere coscienza della propria sofferenza, vedere che anche gli altri sono nella nostra stessa condizione. Poi però non dobbiamo avere una reazione emotiva: “Oh, ma è terribile; come posso aiutarli?” Questa non è bodhicitta.
E’ vero, soffriamo a causa del nostro ego e dell’attaccamento e tutti gli esseri senzienti si trovano nella medesima situazione. Tuttavia, avere una reazione emotiva non è bodhicitta.
Se vi lasciate coinvolgere troppo emotivamente nella sofferenza degli esseri senzienti, potete persino impazzire. Invece che intuizioni che conducono alla saggezza potreste ottenere più afflizioni mentali e visioni errate, come pensare che non vi sia speranza, che il dolore e la sofferenza siano impossibili da sconfiggere, che non ci sia ragione per vivere. Potreste arrivare a essere così disperati da desiderare di morire.
E’ una reazione che può capitare di fronte alla sofferenza universale, e se non state attenti potreste considerare questa compassione distorta come bodhicitta. Ma è un totale equivoco. La bodhicitta richiede un’enorme saggezza, non si basa sulla sofferenza emotiva. La bodhicitta è l’atteggiamento illuminato che inizia con il vedere che tutti gli esseri senzienti, voi compresi, hanno il potenziale per raggiungere l’illuminazione. Prima, potreste esservi sentiti senza speranza di fronte alla sofferenza del prossimo, ma quando comprendete la possibilità di poterli condurre all’illuminazione, nella vostra mente è come se si spalancasse una porta e anziché sentirvi impotenti ed emotivamente disperati, vi sentite ispirati. Per questo, nel verso della preghiera che ho citato, la bodhicitta è definita suprema, perfetta o magnifica.
Ci sono quindi due aspetti di cui abbiamo bisogno per sviluppare la bodhicitta. Uno è indagare e comprendere la natura del samsara. Quando ci rendiamo conto che tutte le nostre concezioni errate e tutta la sofferenza provengono dall’ego, possiamo estendere questa realizzazione agli altri esseri senzienti. Poi, quando abbiamo compreso il nostro potenziale per l’illuminazione, comprendiamo anche che tutti gli esseri senzienti lo hanno e ci assumiamo la responsabilità personale di condurli all’illuminazione, dopo averla raggiunta noi per primi. Questa intenzione è la bodhicitta; quando questi due pensieri – ottenere l’illuminazione e il benessere degli altri – si uniscono simultaneamente in un’unica mente, questa è la bodhicitta.
È molto importante vedere la possibilità di condurre tutti gli esseri senzienti-madre all’illuminazione e assumersi la responsabilità personale di farlo. Automaticamente l’attaccamento si indebolisce e allo stesso tempo le vostre azioni vanno senza sforzo nella direzione del beneficio degli altri, senza che dobbiate pensarci troppo su.
Molte persone credono che la bodhicitta sia una mente dualistica e che quindi in qualche modo sia contraddittoria perché il Buddha ha detto che gli esseri illuminati hanno completamente eliminato qualsiasi mente dualistica; non riescono a capire perché dovremmo coltivare deliberatamente una mente dualistica. Alcune persone si perdono in questo tipo di dibattito filosofico.
Una mente che percepisce una visione dualistica non è per forza totalmente negativa. Senza una visione dualistica che permette di comprendere la natura del samsara, l’impermanenza, la vacuità e così via, è impossibile alla fine realizzarli al di là della visione dualistica stessa.
E’ molto difficile trascendere la dualità. A volte si può sperimentare una sorta di unità, ma si può comunque accorgersi che ha una componente dualistica. La visione dualistica è molto sottile. Anche un bodhisattva che ha acquisito una completa comprensione della vacuità ha ancora una visione dualistica molto sottile.
La ragione per cui non abbiamo ancora raggiunto l’illuminazione è perché la nostra mente relativa percepisce le cose e i fenomeni in modo errato e dualistico. L’unica mente non illuminata che non vede le cose in modo dualistico è quella di un arya bodhisattva durante l’assorbimento meditativo sulla vacuità. Tutto il resto è dualistico.
Spesso sentiamo dire che la meditazione analitica è troppo difficile perché richiede di investire molte energie intellettuali controllando questo, controllando quello, arrivando alla fine alla conclusione che sarebbe meglio smettere del tutto di pensare, svuotare completamente la mente. Ma è solo il nostro ego che ci fa ragionare in questo modo. Come potete smettere di pensare? Il pensiero fluisce continuamente, come un orologio automatico. Che stiate dormendo o siate sotto l’effetto di droghe, il pensiero è sempre presente. Il vostro stomaco può essere vuoto, ma non la vostra mente.
Dal punto di vista dei lama tibetani, tutto ciò che la mente relativa degli esseri senzienti percepisce non è conforme alla realtà. Quindi, da dove viene questa idea che la mente possa essere svuotata di pensiero intellettuale?
L’esperienza della vacuità non è un’esperienza intellettuale. Se lo fosse, tutto quello che dovreste fare per provarla sarebbe fabbricarla intellettualmente, ma naturalmente sarebbe semplicemente il prodotto di una mente inquinata, ignorante e piena di concezioni errate. Ci vuole davvero del tempo per sperimentare la vacuità e le esperienze si fanno per gradi. Per i principianti, è impossibile sperimentare la vacuità intellettualmente perché la vacuità va al di là dell’intelletto.
Come ricercatori spirituali ci troviamo di fronte a due estremi pericolosi. Uno è un eccesso di emotività: “Sto soffrendo, gli altri soffrono. E’ davvero troppo, che Dio ci aiuti!”. Vedere tutto nero è troppo emotivo. L’altro estremo è un rifiuto eccessivo: “Non esiste nulla”. Non potete rifiutare la realtà della vostra sofferenza, ma attraverso la saggezza e la pratica potete liberarvene.
Quello che dobbiamo fare è seguire la via di mezzo tra gli estremi: troppa emotività, troppa concettualizzazione. Ma la via di mezzo è la più difficile da seguire ed è per questo che Lama Tsongkhapa ha sempre sostenuto lo sviluppo simultaneo di metodo e saggezza.
Il metodo è la bodhicitta, che va praticata non solo a parole. Dobbiamo addestrare la nostra mente così come è spiegato nel lam-rim. Se non si adotta un metodo perfetto per sviluppare la bodhicitta, rimarrà nella mente semplicemente come una bella idea. Se invece si dispone di un metodo perfetto per sviluppare la bodhicitta, allora si è estremamente fortunati. Shantideva e Chandrakirti hanno entrambi illustrato come praticare la bodhicitta, e sulla base dei loro insegnamenti Lama Tsongkhapa ha elaborato il suo metodo.
Uno dei metodi particolarmente enfatizzato da Shantideva è quello di scambiare se stessi con gli altri [Tib: dag-shen nyam-je]: trasformare l’attaccamento alla propria felicità in attaccamento per la felicità degli altri. Per innumerevoli vite siamo stati perennemente ossessionati dal nostro piacere e abbiamo completamente trascurato quello degli altri. Questo atteggiamento lo chiamiamo egocentrismo, attaccamento al sé. Dobbiamo quindi cambiarlo radicalmente a favore di uno di una maggior preoccupazione per il benessere degli altri.
E’ un pensiero è estremamente potente; il solo generarlo distrugge automaticamente l’ego. Se, per esempio, qualcuno ci chiede di servirgli una tazza di tè, il risentimento può sorgere immediatamente dentro di noi. Serviamo il tè, ma lo facciamo controvoglia, non siamo affatto contenti. Appena ci viene chiesto, il tarlo dell’irritazione inizia a farsi largo nel nostro cuore. E’ incredibile: non riusciamo nemmeno ad essere felici per aver offerto a qualcuno una tazza di tè.
La persona che riesce a trasformare l’attaccamento a se stessa in attaccamento agli altri non sente invecealcun fastidio, anzi. Senza nemmeno doverci pensare, è spontaneamente felice di mettersi al servizio del suo prossimo. Psicologicamente, questo è molto utile: impedisce al dolore dell’attaccamento al sé di sorgere.
All’inizio della nostra pratica, noi principianti abbiamo bisogno di una grande comprensione e di una forte determinazione intellettuale, perché per innumerevoli vite abbiamo pensato istintivamente: “Il mio piacere è il piacere più importante che ci sia”. Ogni minuto, ogni secondo, ogni istante, quel pensiero era lì, anche se non è a livello conscio. L’attaccamento va ben oltre l’intelletto e la coscienza ed è molto radicato nella nostra mente.
Per sbarazzarci del nostro abituale egocentrismo ed egoismo dobbiamo essere fortemente concentrati sulla felicità degli altri e liberarci dall’attaccamento al sé.
Quindi dobbiamo pensare: “L’attaccamento è stato un problema, da un tempo senza inizio, in tutte le mie vite ed è ancora il mio vero nemico. Se dovessi citare il mio peggior nemico, sarebbe l’attaccamento perché mi fa sempre del male e distrugge ogni mia felicità. Per innumerevoli vite mi sono preoccupato di me stesso e il risultato è stato solo infelicità. Devo assolutamente cambiare il mio atteggiamento, passando dalla preoccupazione per il mio piacere personale a quella per gli altri esseri senzienti madre. Guru Shakyamuni Buddha ha raggiunto l’illuminazione attraverso la preoccupazione per gli altri esseri senzienti madre e aiutandoli”.
Chi vuole veramente realizzare l’illuminazione deve dimenticare il proprio piacere e dedicarsi completamente a quello degli altri. E’ la cosa più importante. In realtà è una questione di psicologia. A prima vista si potrebbe pensare che questo sia solo un trucco intellettuale, ma se vi preoccupate sinceramente del piacere degli altri e vi dimenticate del vostro, automaticamente la vostra motivazione egoistica scompare e la rabbia che è in voi svanisce. Questo perché rabbia e odio derivano dalla motivazione egoistica, dalla preoccupazione solo per se stessi. Non pensate a questo aspetto semplicemente dal punto di vista filosofico; controllate attraverso la vostra esperienza quotidiana.
Per questo motivo Nagarjuna ha detto: “Tutte le azioni positive ed etiche nascono dalla preoccupazione per il benessere degli altri. Tutto ciò che è immorale e negativo deriva dall’attaccamento all’ego.”
E’ chiaro, no? Non sono speculazioni filosofiche, sono fatti scientificamente dimostrabili. Pensate alla vostra vita quotidiana: da quando siete nati avete avuto a che fare con altri esseri umani. Non potete vivere senza relazionarvi con gli altri; è impossibile, a meno che non diventiate Milarepa. Ma anche se lo fate, non sarete Milarepa per sempre.
Quindi la bodhicitta è qualcosa di molto pratico. Non dovete intellettualizzare troppo. Fate caso ogni giorno a come egoismo ed egocentrismo agitano la vostra mente: riuscite a innervosirvi persino se qualcuno vi chiede una tazza di tè. E’ incredibile, è il vostro ego. Ma se servite gli altri con bodhicitta, fate la cosa più positiva in assoluto: tutte le meravigliose qualità della mente onnisciente illuminata derivano dalla preoccupazione per il benessere degli altri esseri.
Il solo fatto di avere questa comprensione è molto potente. Per cominciare dimenticate l’illuminazione e cercate di rendere felice la vostra vita quotidiana; non create problemi a chi vi circonda. Quando potete e per quanto è possibile cercate di addestrare la mente nella bodhicitta e di realizzare che è l’attaccamento il più grande ostacolo alla vostra felicità. E anche se non riuscite a trasformare completamente l’attaccamento al vostro piacere in preoccupazione per gli altri, potete almeno provare a praticare la meditazione sull’equanimità, un metodo molto potente e pratico per essere felici.
Forse allora, invece puntare con un po’ di arroganza alla realizzazione dell’illuminazione, dovreste prima di tutto cercare di rendere gioiosa la vostra vita quotidiana, mettendo fine ai problemi che derivano dal vostro egoismo e smettendo di complicarvi inutilmente l’esistenza. Per chi è alle prime armi questo è probabilmente l’approccio più realistico e sensato.
Tutti i problemi causati desiderio provengono dall’attaccamento; tutti quelli dovuti all’odio e alla rabbia provengono dall’attaccamento. Anche una cattiva reputazione o il risentimento che sorge quando si viene offesi provengono dall’attaccamento. Se davvero arrivate a capirlo, allora avrete molti meno problemi e sarete psicologicamente sani perché imparerrete a liberarvi dall’attaccamento emotivo, a impedirgli di avere presa su di voi.
Quello che sto cercando di dirvi è che a volte ci fissiamo troppo sull’obiettivo più alto – l’illuminazione – e ci dimentichiamo di indagare in che modo sorgono i nostri problemi quotidiani. Questo crea solo un gran caos nella nostra vita e non è per nulla un approccio pratico.
Controllare come sorgono i problemi quotidiani: questo è buon senso. Questa è la cosa più importante ed è ciò che significa praticare il Dharma. Controllando costantemente che tipo di mente causa i nostri problemi, impariamo in ogni momento. Comprendendo la natura dell’attaccamento possiamo facilmente riconoscerlo ogni volta che si manifesta. Se non sapete guardare, non vedrete mai.
Lama Thubten Yeshe – Tradotto da Compassion and Emptiness