Una scienza della mente

Una scienza della mente

Tratto dal volume La psicologia buddhista di Ghesce Tashi Tsering

Nel Buddhismo tibetano, lo studio della mente si classifica come una scienza interiore. La psicologia (lo studio di cosa sia la mente) e l’epistemologia (lo studio di come essa funzioni) sono considerate due aspetti cruciali del cammino spirituale. Medicina e logica sono invece scienze esteriori e, sebbene siano considerate molto importanti, sono ritenute meno rilevanti rispetto alle scienze interiori.

Questo perché tutto ciò che il Buddha ha insegnato, e quindi ogni cosa all’interno del canone buddhista, ha lo scopo di aiutarci ad alleviare la sofferenza e a raggiungere la felicità, cosa che può avvenire solo attraverso la mente. La medicina può curare il corpo, ma di per sé non può renderci felici. Secondo il Buddhismo, anche la salute fisica è collegata agli stati mentali. Le vere minacce al nostro benessere sono quindi l’attaccamento, la rabbia e l’ignoranza, le tre menti illusorie fondamentali che conducono a tutte le altre afflizioni, sia mentali sia fisiche. Solo mediante una comprensione approfondita della mente e del suo funzionamento possiamo sperare di trascendere i pensieri e le emozioni disturbanti che ci affliggono.

Anche se l’obiettivo ultimo dello studio della mente è la completa liberazione dalla sofferenza, possiamo comunque affrontarlo per ragioni terapeutiche più immediate. Indagare la mente analizzando i nostri pensieri, le nostre emozioni e così via è un primo passo per alleviare ogni tipo di malattia mentale. Nel suo primo insegnamento, il Buddha paragona le fasi di liberazione della mente alla guarigione da una malattia: se prima non riconosciamo di essere malati, non cercheremo aiuto. Inoltre, se non conosciamo l’origine della nostra malattia, non potremo scegliere la terapia più efficace. Il Buddha utilizza la cornice delle quattro nobili verità per formulare questa intuizione: la prima verità, la verità della sofferenza, è la malattia. La seconda verità, la verità dell’origine della sofferenza, si riferisce alla causa della malattia. La terza verità, la verità della cessazione, è la comprensione che esiste una cura definitiva. E la quarta verità, la verità del sentiero che conduce alla cessazione, è la cura stessa. Le quattro nobili verità abbracciano l’intero percorso spirituale e tutti i suoi molteplici aspetti, ma si applicano altrettanto bene alla natura della mente. Per trasformare la mente è necessario capire che può essere trasformata e questa è una comprensione che può sorgere solo da una vera conoscenza della sua natura.

In modo analogo, nella psicoterapia occidentale il paziente viene guidato verso la comprensione del proprio stato mentale, al fine di individuare una cura. In questo senso, gli obiettivi del Buddhismo e della psicoterapia occidentale si sovrappongono. Tuttavia, sebbene vi siano molte somiglianze, non tutti gli obiettivi sono condivisi. Assumere una comunanza laddove esistono differenze fondamentali può infatti generare confusione. Secondo i libri che ho letto e le mie conversazioni con gli psicoanalisti, lo scopo della terapia è mettere in armonia i vari elementi della psiche — emozioni, ricordi e così via — in modo che la persona sviluppi una maggiore coesione del proprio senso di sé. Questo è l’obiettivo finale. Al contrario, il Buddhismo aspira a elevarci al di sopra del concetto stesso di “sé” o di “io”. Anziché armonizzare gli elementi disarmonici della psiche, sviluppandoli in un insieme e quindi reificando il concetto di sé, l’obiettivo degli insegnamenti buddhisti è trascendere tale concetto. Questa è chiaramente una grande differenza.

Nel rigettare la nozione di un sé, il Buddhismo è radicale. Esso riconosce che, a prescindere da ciò che possediamo o dal nostro equilibrio emotivo, il nostro essere più profondo è costantemente permeato da un senso di insicurezza. Finché non lo si affronta, è molto difficile sentirsi completi. Riconosce inoltre che la causa risiede nel falso senso di un sé, ovvero che la nostra sofferenza sorge dal fraintendimento della modalità della nostra esistenza. Su questa base deduciamo erroneamente l’esistenza di un “io” attivo e reale. Questo non va inteso come se noi fossimo solo illusioni o sogni, ma che il protagonista del dramma della nostra vita, e cioè l’“io” che ci sta tanto a cuore, è una fantasia. Questo è un concetto molto sottile ma, se vogliamo trascendere la nostra visione limitata e limitante del mondo, è necessario che capiamo cosa effettivamente costituisce quell’insieme di corpo e mente che chiamiamo “io”. Questo è il motivo per cui la psicologia buddhista pone una forte enfasi sull’analisi.

La psicoanalisi occidentale cerca cause specifiche di problemi mentali specifici basandosi, secondo il punto di vista buddhista, su un arco di tempo irrealisticamente breve. Dopo Freud, la scienza della mente occidentale si è certamente evoluta, ma permane il presupposto che gran parte di ciò che non funziona in noi debba essere ricondotto all’infanzia. Questa tesi non trova corrispondenze nel Buddhismo, per il quale la causa principale dei nostri problemi non può essere un agente esterno a questa vita, ma piuttosto un agente interiore che si è sviluppato nel corso di molte esistenze, dando forma alle tendenze abituali della nostra mente. Ovviamente i genitori e l’ambiente svolgono un ruolo significativo nel renderci le persone che siamo, ma il Buddhismo guarda oltre. La psicoanalisi occidentale, un po’ come la medicina occidentale, mi pare che adotti un approccio orientato ai sintomi, affrontando le questioni nello specifico.

Nel Buddhismo gli stati mentali negativi sono ritenuti sintomi di un malessere più profondo e perciò si cerca di arrivare alla radice della malattia. L’approccio buddhista è quindi più olistico, come si evince anche dalla medicina tibetana che, oltre a trattare le cause piuttosto che i sintomi, le collega strettamente alle azioni che derivano da una visione errata del sé (come auto-esistente). Una visione che invece la psicoanalisi occidentale tende a rafforzare, ritenendo la malattia una disarmonia tra gli elementi del sé, mentre il Buddhismo considera l’intera nozione di un sé la malattia. Nei due approcci, quello occidentale e quello buddhista, sono da apprezzare sia le significative similitudini sia le differenze sostanziali, ma è importante che nessuno dei due rifiuti del tutto la scienza dell’altro. Credo che i neuroscienziati, per esempio, trarrebbero molte conoscenze dai testi antichi, scoprendo che gli scienziati interiori di duemila anni fa elaborarono teorie sofisticate e complesse quanto le loro, seppur lavorando con le sole esperienze soggettive della mente. I praticanti buddhisti, dal canto loro, possono imparare molto dalla moderna scienza della mente. Gli esperimenti altamente sofisticati che determinano le funzioni delle varie parti del cervello sono affascinanti, estremamente utili e abbastanza compatibili con le idee buddhiste.

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