Quando penso alle donne e al Buddhismo, la prima cosa che mi viene sempre in mente è la storia del voto di Tara. Questa storia esprime la nostra situazione in modo davvero chiaro e si applica ugualmente sia ai tempi antichi che ai tempi moderni.
È una storia che ha avuto origine quando il Mahayana si stava integrando con il tantra, formando infine ciò che divenne il Vajrayana in India, ed è rappresentativa di una serie di storie che si susseguirono, incentrate su figure femminili potenti che valorizzarono se stesse come donne all’interno del Buddhismo. Molte delle storie di quell’epoca in India (700-800 a.C. circa) ci dicono che cosa stava accadendo sia a livello sociologico nella cultura, sia a livello evolutivo nel Vajrayana. Durante questo periodo, il Buddhismo ebbe per la prima volta donne che insegnavano agli uomini. Fu anche l’alba dei buddha femminili e del principio di saggezza femminile, che iniziò con Prajnaparamita, la “Madre di tutti i Buddha”, nel periodo Mahayana.
La storia ci narra che Tara era una principessa di nome Wisdom Moon – Luna di Saggezza – che era molto devota al dharma e praticava una profonda meditazione. Era vicina all’illuminazione, con l’intenzione di raggiungerla a beneficio di tutti gli esseri, quando un monaco le si avvicinò e le disse che era un peccato che abitasse il corpo di una donna, perché sarebbe dovuta rinascere come uomo prima di poter diventare illuminata. La principessa rispose brillantemente e dimostrò la sua comprensione della vacuità e della verità assoluta, dicendo: “Qui non c’è uomo, non c’è donna, nessun Io, nessuna persona e nessuna coscienza. La definizione di “maschile” o “femminile” è vuota. Oh, come si illudono gli sciocchi del mondo.” (Taranatha, Origin of the Tara Tantra).
Detto questo, proseguì pronunciando il seguente voto: “Coloro che desiderano raggiungere la suprema illuminazione nel corpo di un uomo sono molti, ma coloro che desiderano servire gli obiettivi degli esseri nel corpo di una donna sono davvero pochi; per questo, possa io, finché questo mondo non si sarà svuotato, lavorare per il beneficio degli esseri senzienti nel corpo di donna.”
Da quel momento in poi, la principessa si dedicò alla realizzazione dell’illuminazione completa. Una volta raggiunta questa meta, divenne nota come Tara, la Liberatrice. Mi piace dire che Tara è la prima “Attivista delle Donne” e che Green Tara è la leader spirituale del Green Party (1), una guardiana della foresta, che agisce in modo rapido e compassionevole, con un piede nel mondo e un piede nella meditazione; un luogo in cui molti di noi trovano se stessi.
Come praticante del Buddhismo, non penso a me stessa in termini di genere. Cerco di sottrarmi da questi concetti e di permanere nella vera condizione di assoluto e incessante vuoto luminoso, la radice dell’essere. Tuttavia, ho continuato a impegnarmi per il riemergere del sacro femminile nella tradizione Buddista. Non vedo alcun conflitto o dissonanza in queste due visioni.
Questo impegno si è realizzato al Tara Mandala, il mio centro di ritiro spirituale nel sud del Colorado, dove abbiamo costruito un tempio mandala a tre piani dedicato alle ventuno Tara, tutti i diversi aspetti del femminile illuminato. L’interno del tempio è la dimora di statue dorate a grandezza naturale di queste Tara, che circondano il perimetro come negli antichi templi della dea in India.
Provenendo da una famiglia di donne realizzate, che erano rispettate e apprezzate in egual misura in rapporto agli uomini, non ho mai avvertito che vi erano cose che una donna non avrebbe potuto o dovuto fare. Così, quando ho iniziato a studiare con i Tibetani nel 1967, non avevo una particolare consapevolezza dei pregiudizi di genere. Dopo la mia ordinazione da Sua Santità il XVI Karmapa a Bodhgaya, nel Gennaio 1970, ho iniziato la mia vita come monaca Buddista. A causa della carenza di traduzioni disponibili, avevo solo un’idea generale dei voti che avevo preso, e per diversi anni vissi felicemente, inconsapevole delle disuguaglianze storiche tra monaci e monache.
Ero stata ordinata come sramanerika (getsulma in tibetano), o novizia, con soltanto trentasei voti, e appresi solo più tardi che il Buddha aveva dato regole di disciplina aggiuntive alle donne completamente ordinate. Secondo alcune tradizioni Vinaya ci sono 311 voti per le donne completamente ordinate bhiskunis, o gelongma, rispetto ai 227 voti per gli uomini che diventano bhikshu. Molti dei voti supplementari hanno a che fare con la subordinazione delle monache ai monaci.
Secondo le storie del Vinaya, Gautama Buddha rifiutò di ammettere le donne all’ordine monastico diverse volte, prima di accettare finalmente di farlo per via dell’insistente richiesta della sua madre adottiva, Mahaprajapati, e del forte intervento di suo cugino Ananda per suo conto. Mahaprajapati non era solo una donna che chiedeva di diventare monaca. Era la sorella di sua madre, e aveva allattato e cresciuto il Buddha dalla morte della madre, poco dopo la sua nascita. Quando aprì il sangha alle donne, si dice che il Buddha rese per loro più difficile l’essere ordinate, e le pose come subordinate a tutti i monaci. Sembra che egli predisse anche che ammettere le donne al sangha avrebbe ridotto la vita del sangha stesso di cinquecento anni. Tuttavia, non è noto se queste storie siano storicamente accurate o se, come suggeriscono alcuni studiosi Buddisti, siano state scritte in seguito da monaci androcentrici e patriarcali.
Per merito dei miei maestri nei miei primi giorni come monaca, non ho mai avvertito tendenze misogine e ho sempre avuto la piena fiducia che avrei avuto completo accesso agli insegnamenti ogni volta che sarei stata pronta per il passo successivo. La mia prima presa di coscienza del sessismo nel Buddhismo arrivò quando andai in India a frequentare un corso di tre mesi, che riguardava una serie di potenziamenti tenuta da Dilgo Khyentse Rinpoche a Tashi Jong, vicino Dharamsala, nel 1973.
Quando io e Ani Jinpa, una monaca olandese, cercammo posti a sedere, ci venne detto che dovevamo sederci dietro a tutti gli altri i monaci, compresi gli agitati piccoli monaci di sei anni, che erano stati ordinati da poco e non sapevano ancora leggere. Rimasi sorpresa e un po’ delusa dalla mia religione adottiva. Per tre mesi, ci sedemmo in fondo al tempio, strette fra i monaci bambini e i laici, che chiacchieravano costantemente circondati dai loro figli. Questo mi fece pensare.
Quello stesso anno, decisi di deporre le vesti monacali – non a causa del sessismo che vidi nel Buddhismo, ma perché non riuscivo a vedere alcun futuro per me come monaca. Ero l’unica monaca Buddista della tradizione tibetana in America, dove cercavo di vivere e studiare con Chögyam Trungpa. A un certo punto, chiesi a Trungpa Rinpoche un testo sul principio femminile nel Buddhismo, e mi diede un grande volume tibetano su Prajnaparamita. Tuttavia, non riuscii a farci nulla perché presto divenni madre di tre figli.
Mi interessai veramente a cercare storie di donne nel Buddhismo quando persi una figlia nella primavera del 1980. Era la gemella di mio figlio Costanzo e morì a causa della sindrome della morte infantile improvvisa, quando aveva due mesi. Dopo la morte di Chiara, sentii un profondo bisogno di storie di donne della mia tradizione. Avevo necessità di conoscere le loro vite. Le biografie degli uomini non mi aiutavano.
Non riuscii a trovare storie di donne, e nei pochi riferimenti alle donne ne I Centomila Canti di Milarepa, lessi cose come: “A causa del mio karma peccaminoso, mi è stato dato questo corpo femminile inferiore”. Io non ci credevo.
Nel 1981, viaggiai in India e in Nepal alla ricerca delle biografie di grandi donne praticanti del Tibet. Questa ricerca mi portò a scrivere il mio primo libro, Women of Wisdom. Mentre scrivevo il libro, viaggiavo attraverso l’India e il Nepal, chiedendo che mi venissero raccontate storie di donne illuminate. Quando un monaco, alla mia richiesta, mi rivolse un’occhiata perplessa, spiegai meglio cosa stavo cercando, e lui mi disse: “Oh, ora capisco. Non stai cercando storie di donne, ma biografie di dakini”. In seguito mi resi conto che ogni volta che una donna diventava illuminata, si credeva che essa doveva essere stata una dakini speciale (un’incarnazione femminile della saggezza) e non una donna normale. Una donna normale non sarebbe mai diventata illuminata. E in effetti, la parola tibetana per “donna” significa “nascita inferiore”.
Le storie che infine trovai mi diedero forza e ispirazione, e la ricerca mi risvegliò a una più ampia consapevolezza delle donne e delle questioni femminili di tutto il mondo. Il riequilibrio dei generi attualmente in corso potrebbe essere il più grande successo di questo secolo. È stato molto toccante per me vedere questo movimento andare avanti in varie forme su tutto il pianeta. In alcuni paesi le vecchie forme vengono rivoluzionate, ma in altri possiamo vedere la conseguente repressione reazionaria.
I diritti delle donne, la loro libertà, sicurezza e protezione sono essenziali per la sopravvivenza della specie umana. Come si può crescere se le voci della metà della popolazione non vengono ascoltate e apprezzate? Queste voci sono quelle delle donne, che storicamente hanno parlato in modo preponderante dalla parte della nonviolenza, della pace e della protezione della terra. E anche se molti paesi hanno messo in atto politiche nazionali per i diritti e la protezione delle donne che sono coerenti con le misure adottate a livello internazionale, è ovvio che ci sono ancora ostacoli all’eliminazione della discriminazione e della violenza contro le donne e al raggiungimento della parità di genere. Le statistiche recenti mostrano che due terzi degli adulti analfabeti del mondo sono donne, e le tendenze al ribasso sono aumentate durante la recente crisi economica e sociale globale.
Tuttavia, negli ultimi anni si è creato un movimento che mira all’uguaglianza di genere all’interno del Buddhismo. Il Dalai Lama ha parlato sempre di più dell’importanza di avere donne nelle posizioni di comando del governo affinché la pace sia possibile sulla terra. Il XVII Karmapa ha promesso di fare tutto il possibile per ripristinare la piena ordinazione delle donne nel Buddhismo Vajrayana. Nella tradizione Theravada, è tornata la piena ordinazione.
In una recente conferenza con il Dalai Lama, organizzata per i maestri occidentali di Buddhismo, le maestre donne hanno occupato più di metà della stanza. Se ci guardiamo intorno nel mondo, possiamo finalmente vedere una presenza di donne in posizioni di leadership nel Buddhismo che non c’era mai stata prima, ma c’è ancora molta strada da fare.
Il 22 luglio di quest’anno, ho improvvisamente perso mio marito, David Petit, dopo ventidue anni di matrimonio. Ha avuto una morte particolare con segni di buon auspicio, ma è stato uno shock che lui morisse a cinquantaquattro anni, senza alcun preavviso. Nel mio dolore, mi sono chiesta se sarei stata in grado di scrivere questo testo, ma nel pensarlo ho capito che era importante per me esprimere la profonda gratitudine e l’apprezzamento che provo per il maschile, nella lotta per l’uguaglianza di genere nel Buddhismo. David è stato l’incarnazione di una potente forza maschile che ha attualizzato tutto al Tara Mandala negli ultimi diciassette anni – dalle prime yurte e tende, al nostro edificio comunitario, alla sala della residenza, e infine al bellissimo tempio di Tara a tre piani. Mi è stato vicino anche attraverso le difficoltà, davanti alla sfida di fondare il centro e durante gli attacchi che mi sono stati rivolti per essere “troppo femminista” e quindi “incapace di comprendere la non-dualità”. Mi ha sostenuto nella mia posizione contro lo sfruttamento sessuale delle donne da maestri di sesso maschile, e ha protetto le donne che sono arrivate al Tara Mandala.
Sulla scia della sua scomparsa, sono profondamente consapevole del ruolo che il maschile positivo gioca nel bilanciamento del nostro mondo e di quanto sia importante una collaborazione fortemente rispettosa nella fondazione del Buddhismo in Occidente. E questo è vero non solo tra i partner di una coppia, ma anche nelle nostre relazioni con amici, famiglie, insegnanti, studenti e all’interno del sangha. Sento che è importante riconoscere e valorizzare i grandi uomini che sono impegnati attivamente a portare integrità e uguaglianza nel mondo Buddhista, così come onorare le molte donne che hanno lottato e che hanno compiuto tanti sacrifici per ottenere questo scopo.
La verità assoluta della vacuità di genere e la verità relativa di un reale atteggiamento misogino storico nel Buddhismo, si affiancano alla storia di Tara. Il suo voto supremo di ritornare sempre come donna e di raggiungere l’illuminazione come donna, mostra sia la sua comprensione della realtà assoluta, sia il bisogno relativo delle donne di essere apprezzate e trattate allo stesso modo degli uomini, nel Buddhismo. (2)
Traduzione italiana a cura di Laura Rimola, tratto da Tara, the First Feminist