Soffriamo inutilmente perché non conosciamo noi stessi. Come tossicodipendenti che si aggrappano alla droga, non riusciamo a lasciar andare la sensazione di essere sostanziali, solidi, indipendenti e autonomi. Facciamo piani – grandi e piccoli – per acquisire o danneggiare, tutti basati su questa falsa percezione di come esistiamo, di chi siamo in quanto esseri viventi.
In nome e per conto di questo io esagerato, mossi dalla paura, dalla rabbia e dall’orgoglio facciamo del male agli altri. Per soddisfare ogni capriccio passeggero di questo io esagerato, diamo libero sfogo alla nostra avidità. Tuttavia, la strada dell’avidità e del male non ci porta affatto verso la felicità. Questo è il samsara, il circolo vizioso dell’insoddisfazione e dell’infelicità.
Più e più volte, momento dopo momento, cadiamo in questa trappola che abbiamo inconsapevolmente costruito per noi stessi. E come la droga per i tossicodipendenti, la falsa idea di un sé indipendente è fonte di grande infelicità, per noi stessi e per gli altri.
Certo che esistiamo, siamo esseri viventi. Compiamo delle scelte e le nostre scelte fanno la differenza, per noi stessi e per il prossimo ma, a un certo livello, tutti noi abbiamo la sensazione di non poterci limitare a questo. Per essere veri, per essere vivi, sentiamo che nel profondo dobbiamo in qualche modo esistere in modo solido e indipendente. La morte ci racconta una storia molto diversa, ma proprio per questo motivo troviamo un milione di espedienti per evitare di ascoltare il suo messaggio: siamo impermanenti. Il nostro corpo si sta consumando momento per momento, proprio adesso, e anche se desideriamo disperatamente credere il contrario la verità è che sotto la nostra mente in continuo cambiamento e il nostro corpo che invecchia non c’è un io eterno e dotato di propria essenza. Il nostro modo di esistere non è indipendente.
Esistiamo in modo contingente, interdipendente. Esistiamo, ma solo in dipendenza dai nostri antenati, dalle parti del nostro corpo, dal cibo, dall’aria e dall’acqua e dagli altri membri della società. Non potremmo e non esistiamo altrimenti. Priva di qualsiasi natura indipendente o sostanziale, la nostra esistenza è possibile solo perché è molto meno rigida, meno concreta di come la immaginiamo.
Tuttavia, invece di vedere le cose per come sono, sovrapponiamo a noi stessi e a ciò che ci circonda una falsa esistenza, un’auto-esistenza o una realtà essenziale che in definitiva non esiste affatto. Nella filosofia buddhista, la verità ultima è la pura assenza, la mancanza di una tale essenza. Questa è la vacuità (stong pa nyid, shunyata). Sebbene possa sembrare cupa, deludente o spaventosa questa è la natura stessa della realtà. Ed è la realtà – non la fantasia – la nostra speranza e il nostro rifugio.
Il cammino verso la libertà dall’inutile infelicità, per noi stessi e per gli altri, passa attraverso la profonda realizzazione di questa verità fondamentale.
Da principio come potremmo pensare che il “vuoto” sia qualcosa di così positivo? La parola ha potenti connotazioni negative. Suggerisce l’esatto contrario di un percorso spirituale liberatorio. Evoca l’idea di assenza, morte, disperazione, mancanza di prospettive e significato. Se facciamo caso al modo in cui questa parola risuona attraverso le nostre associazioni di idee, sembra addirittura suggerire che nulla abbia importanza.
Le parole tibetane e sanscrite che traduciamo con “vacuità”, in effetti significano letteralmente “vuoto”. Si riferiscono in modo specifico a una sorta di mancanza o di assenza nelle cose ma non si tratta di una mancanza di significato, speranza o esistenza. È la mancanza del tipo di esistenza esagerata e distorta che abbiamo proiettato sulle cose e su noi stessi. È l’assenza di quella falsa natura con cui abbiamo inconsciamente investito tutto. Può essere molto spaventoso iniziare a dubitare di questo tipo di realtà “pesante”. Avremo la sensazione che le cose non esistano affatto se non esistono nel modo solido in cui siamo abituati a vederle. Consideriamo, però, che se avessimo davvero un tipo di esistenza molto solida, significherebbe che non potremmo mai cambiare. Se la nostra natura essenziale fosse quella di essere come siamo, saremmo sempre esattamente così. Saremmo bloccati nell’esistenza, proprio come siamo ora. Non ci potrebbe essere vita, tutto sarebbe statico e congelato. Non potremmo interagire con altri esseri viventi, crescere e imparare. Come potremmo diventare più saggi? Come potremmo trovare la felicità?
Vivendo e crescendo, impariamo che siamo felici quando possiamo rendere felici gli altri. Gli altri esseri viventi e la loro sofferenza sono vuoti, ma questo non ne nega affatto l’esistenza o la dolorosità della loro sofferenza. Al contrario, significa che questa sofferenza non è una parte fissa della realtà: può essere cambiata. E in effetti cambierà, ma il fatto che migliori o peggiori dipende dalle cause e dalle condizioni il che significa che, in parte, dipende da noi.
Possiamo pensare alla vacuità come a un cielo limpido e azzurro, uno spazio trasparente e aperto e, così facendo, la nostra natura vuota significa non porre limiti a ciò che possiamo diventare. Non siamo bloccati, ostacolati o vincolati. In questo momento, la nostra capacità di aiutare gli altri può essere ridotta, ma la vacuità è l’assenza di catene che ci impediscono di diventare più saggi e compassionevoli. È l’assenza di sbarre alla porta, la libertà da qualsiasi limite introiettato a ciò che possiamo essere. Quanto possiamo diventare saggi? Quanto amorevoli? Quando ce lo chiediamo, non imponiamoci confini che non fanno parte della realtà. Inevitabilmente affrontiamo delle difficoltà, a volte grandi. Il percorso richiede tempo e impegno. Ma gli ostacoli non sono insormontabili, perché non sono intrinseci alla struttura della realtà. Fondamentalmente, tutte le cose sono vuote – e anche noi siamo vuoti – di qualsiasi natura intrinseca. Ecco perché la realtà della vacuità, correttamente compresa, è un’enorme fonte di speranza e di ispirazione. Solo perché siamo vuoti, le possibilità di ciò che possiamo diventare sono infinite. Il cielo è il limite.
Tratto da Introduction to Emptiness – As Taught in Tsong-kha-pa’s Great Treatise on the Stages of the Path