I buddhisti credono che esista una continuità della coscienza individuale dopo la morte e che questa coscienza vada a unirsi a un nuovo corpo: rinasciamo dopo ogni morte e ogni vita segue quella che l’ha preceduta. Né la scienza occidentale né i canoni religiosi occidentali hanno una teoria così accurata delle origini e della natura della coscienza. Se il Buddhismo ha qualcosa da offrire alla civiltà occidentale è proprio questa sua profonda comprensione della mente, le numerose teorie sul suo funzionamento e sul suo potenziale che possono essere testate empiricamente. Se queste teorie dovessero venire confutate con mezzi scientifici, allora il nucleo della visione buddhista del mondo sarebbe minato, ma se dovessero essere confermate da un’indagine empirica, solida e approfondita, dovremmo modificare radicalmente la nostra interpretazione della scienza e della religione.
Vediamo ora in che termini il Buddhismo spiega la morte. Possiamo iniziare con un’analogia. Il principio centrale della fisica moderna è la conservazione della massa-energia. Ciò significa che materia ed energia possono subire innumerevoli trasformazioni — da solido a liquido a gassoso; da energia termica a elettromagnetica e così via — ma nessuna quantità della massa-energia va mai persa. Né alcuna forma di materia o di energia può nascere dal nulla.
Nel pensiero buddhista incontriamo una teoria simile sulla continuità della coscienza. Il continuum mentale di un individuo subisce innumerevoli cambiamenti — dallo stato di veglia al sogno, al sonno profondo, dall’agitazione emotiva, alla calma e così via — ma non cessa mai. Né la coscienza, o mente, può nascere dal nulla. Secondo la visione buddhista la massa-energia non si trasforma in consapevolezza, né la consapevolezza scompare nella massa-energia. La massa-energia ha una continuità come massa-energia e gli eventi mentali, inclusa la coscienza, hanno una continuità come eventi mentali. In questo modo, si confuta la tesi secondo cui la consapevolezza si sia originariamente evoluta dalla massa-energia, come proprietà emergente. Si nega inoltre che la consapevolezza (o mente, o coscienza) di un feto nasca dalle stesse condizioni fisiche che ne hanno prodotto il corpo. E infine si oppone all’idea che la coscienza svanisca con la morte. Per quanto riguarda la coscienza, la tesi buddhista pur essendo compatibile con molte affermazioni scientifiche riguardanti la cosmologia, l’embriologia e la morte, si contrappone all’interpretazione materialista.
Secondo il Buddhismo, nel continuum degli eventi mentali alcune forme di coscienza sono manifeste, altre sono latenti. Per esempio, quando siete arrabbiati per qualcosa l’evento mentale della rabbia è manifesto, ma quando tornate a essere calmi la rabbia diventa latente. Di fronte a un bellissimo tramonto, la vostra consapevolezza di esso è manifesta, ma successivamente quella consapevolezza diventa latente. Quando sogniamo sia la coscienza di veglia (compresa la consapevolezza sensoriale) sia la coscienza del sonno profondo sono latenti; nello stato di veglia la consapevolezza del sogno e del sonno profondo sono latenti; e mentre si è nel sonno profondo, la coscienza di sogno e di veglia sono latenti.
Le impronte lasciate dalle afflizioni mentali, dalle percezioni sensoriali, dai diversi stati di consapevolezza e così via, rimangono latenti nel continuum della mente fino a quando non si verificano le condizioni appropriate per riportarle al loro stato manifesto. Tutti gli eventi mentali possono essere radicalmente trasformati, il che permette alla mente di essere alla fine libera da ogni afflizione e in tutte queste trasformazioni vale il principio della continuità della mente.
Il Buddhismo afferma che tutti i fenomeni naturali — compresi ovviamente gli eventi mentali — sorgono in dipendenza da due fattori: cause sostanziali e condizioni cooperanti. La causa sostanziale di un germoglio di grano, per esempio, è un chicco di grano. Quel chicco si trasforma in germoglio e la sua struttura molecolare determina che sarà un germoglio di grano e non, diciamo, di mais. Molte altre condizioni, compresi i modelli meteorologici, la temperatura e i metodi di coltivazione possono contribuire alla crescita del germoglio; ma non agiscono come causa sostanziale. Gli eventi fisici possono sorgere esclusivamente da cause sostanziali fisiche, ma le condizioni cooperanti possono includere sia eventi fisici sia mentali. Un campo di grano può essere stato seminato, per esempio, a causa dell’intenzione di un contadino di farlo, e può essere irrigato a causa del suo desiderio di avere un raccolto copioso. L’intenzione e il desiderio sono chiaramente eventi mentali e possono essere funzionali alla crescita di un campo di grano. Gli eventi mentali possono sorgere esclusivamente da cause sostanziali mentali, ma le condizioni cooperanti possono includere eventi mentali e fisici. Gli aminoacidi, il DNA, i processi neurologici, la dieta e le condizioni ambientali — tutti questi eventi fisici — contribuiscono all’emergere di stati di consapevolezza, ma non giocano un ruolo prevalente e sostanziale nelle f unzioni mentali antecedenti e nelle impronte latenti.
A questo punto, può sembrare che il Buddhismo proponga una dicotomia assoluta tra mente e materia. Ma se è vero che non sussume la mente sotto la materia o la materia sotto la mente, differisce nettamente dal tipo di dicotomia immaginata, per esempio, da Cartesio. Secondo il Buddhismo la coscienza è un evento, o un continuum di eventi, e non qualcosa che si muove nel tempo. Anche l’energia può essere meglio compresa come evento, e persino la materia, che ci appare così “oggettiva”, si dissolve in una matrice di eventi se viene esaminata da vicino. Quindi il Buddhismo non afferma che il regno mentale è reale e tangibile come il mondo fisico sembra essere. Piuttosto, afferma che l’apparenza sostanziale del mondo delle entità fisiche è ingannevole, e che sia i fenomeni fisici sia quelli mentali sono meglio compresi se considerati eventi interdipendenti. Ciò implica che nessun fenomeno esiste con una propria identità intrinseca e indipendente, perché ogni fenomeno dipende dagli altri. Nel Buddhismo questo è un concetto chiave e sarà discusso più avanti.
Che cosa sostiene allora il Buddhismo a proposito della morte? Che non ci offre una via d’uscita dalle gioie e dai dolori, dalle delizie e dalle tribolazioni dell’esistenza. Durante il processo della morte, il corpo perde la sua capacità di sostenere la coscienza umana. Le varie facoltà sensoriali, le emozioni e i pensieri si ritirano in uno stato di latenza ed emerge uno stato di consapevolezza più sottile e non condizionato. Quando la coscienza è così riportata al suo stato primordiale, libero da concettualizzazioni, può verificarsi un’esperienza trascendente della realtà ultima, se si è adeguatamente preparati per questo evento. Altrimenti, si sperimenta semplicemente un breve senso di spaziosità che viene rapidamente eclissato da vari tipi di esperienze e visioni.
Alla morte, il flusso di consapevolezza che lascia il corpo non è più umano, anche se porta con sé una vasta gamma di impronte latenti della vita appena terminata e delle vite precedenti. Queste impronte sono responsabili del tipo di esperienze che si sperimenteranno durante il periodo intermedio, dopo la morte e prima della rinascita successiva. Quando questa fase è conclusa, se si sta per ottenere un’altra rinascita umana, il flusso di coscienza si unisce con le sostanze riproduttive dei genitori durante o dopo la loro unione sessuale, e avviene il concepimento. Durante lo sviluppo del feto quella coscienza assume le funzioni e gli attributi della coscienza umana, cioè si attivano le impronte latenti delle emozioni umane, del pensiero e così via. Queste tre fasi — morte, periodo intermedio e concepimento — sono simili ai tre stati di sonno profondo, sogno e veglia. Avendolo compreso, i contemplativi tibetani traggono pieno vantaggio da questi stati che si verificano anche durante il sonno, praticando tecniche come lo yoga del sogno e altre meditazioni in cui la consapevolezza viene gradualmente assorbita come durante il processo della morte. In queste pratiche si pone grande enfasi sullo sperimentare lo stato di chiara luce, o consapevolezza primordiale, che ordinariamente si manifesta appena prima della morte.
Ci sono enormi vantaggi in questa realizzazione, perché permette allo yogi di superare le afflizioni mentali e le oscurazioni, e porta alla capacità di scegliere a piacimento la prossima rinascita. I buddhisti credono che il tipo di morte, il periodo intermedio e la rinascita che sperimentiamo siano determinati dal modo in cui abbiamo condotto la nostra vita. Ogni azione lascia delle impronte sul nostro flusso mentale. Quelle non salutari portano alla sofferenza, quelle salutari portano alla felicità e all’appagamento. Alla morte, il continuum mentale che è stato profondamente coltivato con il Dharma prende una rinascita con il livello di maturità spirituale che si era raggiunto. È così che il sentiero del Dharma continua di vita in vita e culmina nella perfezione del completo risveglio spirituale, in cui si è irrevocabilmente liberati da tutte le afflizioni e le oscurazioni.
Tratto da: Il Dharma nella vita quotidiana – Guida pratica al Buddhismo tibetano