Senza un solo strumento scientifico, il principe Siddhartha si è seduto su un mucchio di erba kusha, all’ombra di un albero ficus religiosa e si è messo a indagare la natura umana. E che cosa ha scoperto il Buddha da questa indagine?
Dopo un lungo periodo di contemplazione, si è reso conto che tutte le forme, comprese la nostra carne e le nostre ossa, tutte le nostre emozioni e tutte le nostre percezioni, sono degli assemblati: sono il prodotto di due o più elementi che si uniscono.
Quando due o più componenti si uniscono, emerge un nuovo fenomeno: chiodi e legno diventano un tavolo; acqua e foglie diventano tè; paura, devozione e l’idea di un salvatore diventano dio.
Il prodotto finale che si ottiene non ha un’esistenza indipendente dalle sue parti. Credere che qualcosa esista veramente, in modo indipendente, è il più grande degli inganni.
Nel frattempo, anche le singole parti che compongono un assemblato hanno subito un cambiamento, perché incontrandosi con altre, il loro carattere è mutato e, insieme, sono diventati qualcos’altro: sono “composti” o “compositi”.
Il Buddha poi si rese conto che questo principio vale non solo per l’esperienza umana, ma per tutta la materia, il mondo intero, l’universo: tutto è interdipendente, tutto è soggetto al cambiamento. Nessun componente di tutta la creazione esiste in uno stato autonomo, permanente, puro.
Non il libro che avete tra le mani, non gli atomi, nemmeno gli dei. Quindi, finché c’è qualcosa alla portata della nostra mente, anche nella nostra immaginazione come un uomo a quattro braccia, deve necessariamente dipendere dall’esistenza di qualcos’altro.
Così il Buddha ha scoperto che “impermanenza” non significa morte, come di solito si è portati a credere.
Significa invece cambiamento. Tutto cambia incessantemente in relazione qualcos’altro: anche il minimo spostamento, è soggetto alle leggi dell’impermanenza.
Attraverso queste realizzazioni, Siddharta alla fine ha trovato un metodo per aggirare la sofferenza della mortalità. Ha accettato l’inevitabilità del cambiamento e che la morte è solo una parte di questo ciclo. Inoltre, si è reso conto che non c’è alcun potere onnipotente in grado di invertire il cammino verso la morte; quindi non c’è nemmeno la speranza di sconfiggerlo.
Senza una cieca speranza, non c’è neanche la delusione. Se si sa che tutto è impermanente, non ci si afferra e se non ci si afferra, non si pensa in termini di guadagno o perdita e quindi si vive pienamente.
Il risveglio di Siddharta dall’illusione della permanenza è la ragione per cui venne chiamato, e continuiamo a chiamarlo, il Buddha, il Risvegliato.
Ora, più di 2.500 anni dopo, comprendiamo che quanto Buddha ha scoperto e insegnato è un tesoro d’inestimabile valore, che ha ispirato milioni di persone. Persone istruite e analfabete, ricche e povere, dal Re Ashoka ad Allen Ginsberg, dal Kublai Khan a Gandhi, dal Dalai Lama ai Beastie Boys.
Se Siddharta fosse qui oggi, tuttavia, credo sarebbe piuttosto avvilito: per la maggior parte degli esseri umani, le sue scoperte rimangono inascoltate e non perché nel frattempo la tecnologia moderna le abbia confutate. Nessuno è diventato immortale, tutti a un certo punto devono morire. Secondo le stime, muoiono 250.000 esseri umani ogni giorno.
Le persone a noi vicine sono morte o moriranno.
Eppure ci ritroviamo sgomenti, sconvolti e disperati quando una persona a noi cara ci lascia e continuiamo a cercare la fonte dell’eterna giovinezza o una formula segreta che ci allunghi la vita: dai super food ai prodotti per la pelle, dalle lezioni di yoga al ginseng coreano, dalla chirurgia plastica alle iniezioni di collagene. Tutte prove evidenti che siamo segretamente accomunati dal desiderio di immortalità dell’imperatore Qin.
Il principe Siddhartha non aveva più bisogno, non desiderava più l’elisir dell’immortalità.
Rendendosi conto che tutte le cose sono composite, che la decostruzione è infinita e che nessuno dei componenti di tutta la creazione esiste in uno stato autonomo, permanente, puro, ha liberato se stesso.
Tutto ciò che viene messo insieme (e che noi intendiamo come un tutt’uno a sé stante) è la sua natura impermanente, legato insieme come l’acqua e un cubetto di ghiaccio.
Quando mettiamo un cubetto di ghiaccio nella nostra bevanda, otteniamo entrambi. Proprio così: quando Siddhartha guardava qualcuno che camminava, anche la persona più sana, vedeva sì che era viva e vegeta, ma simultaneamente vedeva anche che si stava disintegrando.
Si potrebbe pensare che questo modo di vedere il mondo non sia esattamente il massimo del divertimento… E invece può essere un viaggio incredibile per scoprire entrambe le direzioni: creazione, distruzione e di nuovo creazione. Può regalarci una grande soddisfazione e gioia. Non è come essere imprigionati sulle montagne russe della speranza e della disillusione, che salgono e scendono senza sosta.
Vedendo le cose in questo modo, esse cominciano a dissolversi intorno a noi. La vostra percezione dei fenomeni si trasforma e in un certo senso diventa più chiara: capite quanto doloroso deve essere per le persone rimanere bloccate sulle montagne russe e spontaneamente ne avete compassione. Per voi l’impermanenza sarà diventata qualcosa di ovvio, ma loro ancora non lo sanno.
Dzongsar Jamyang Khyentse – Tradotto da What Makes You Not a Buddhist – Shambhala.