Come liberarci dalla nostra prigione interiore

Come liberarci dalla nostra prigione interiore

In occasione del ritiro della Venerabile Robina Courtin presso l’Istituto Lama Tzong Khapa e dall’uscita del volume da lei curato Liberi tutti. Liberi da tutto, pubblichiamo la sua prefazione che introduce le lettere che Lama Zopa Rinpoche ha inviato alle persone detenute nell’ambito di Liberation Prison Project.

Fin dagli esordi del Liberation Prison Project, un progetto di servizi sociali della Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana, Lama Zopa Rinpoche, direttore spirituale della FPMT, ha ricevuto migliaia di lettere da persone in prigione, principalmente negli USA.
Il lavoro del Liberation Prison Project, nome scelto da Rinpoche nel 2000, era iniziato già nel 1996 con una lettera inviata a Mandala, la rivista della fondazione, da un ventenne americano di origine messicana, Arturo Esquer, detenuto a Pelican Bay, un penitenziario di massima sicurezza nel nord della California, dove stava scontando tre condanne da 25 anni all’ergastolo. All’epoca era in isolamento nella Security Housing Unit, dove trascorreva ventitré ore al giorno rinchiuso in una cella. Arturo scrisse che tra i titoli disponibili della biblioteca di quel braccio aveva trovato un libro di Lama Yeshe, il cofondatore con Rinpoche della FPMT, che gli insegnamenti di Lama sulla compassione lo avevano profondamente commosso e che desiderava saperne di più. L’indirizzo di Mandala era riportato nel libro.

Arturo era stato membro di una delle tante gang di Los Angeles da quando aveva undici anni; era in carcere da quando ne aveva tredici, prima come minorenne e poi, dopo il processo, condannato come un adulto all’età di sedici anni.
Il LPP gli inviò alcuni libri sul buddhismo e gli fornì una guida spirituale. Presto si sparse la voce e, nel giro di un anno, quaranta detenuti in tutti gli Stati Uniti iniziarono a scrivere delle lettere. Molti dei reclusi, proprio come Arturo, stavano scontando pene lunghissime, altri erano nel braccio della morte. Alcuni nel tempo sono diventati praticanti e studenti di buddhismo, ma tutti beneficiarono – e continuano a farlo – dell’amicizia delle guide spirituali, spesso il loro unico sostegno.

Nel corso degli anni il Liberation Prison Project ha aiutato circa ventimila carcerati, la maggior parte dei quali negli USA, ma anche in altri Paesi, tra cui Australia, Italia, Spagna, Messico, Mongolia e Nuova Zelanda, dove sono stati creati progetti locali. Alcuni, ispirati dagli insegnamenti dei libri di Lama Zopa o da ciò che avevano letto su di lui nella newsletter del progetto, scrivevano direttamente a Rinpoche – Arturo fu il primo a farlo – e molti gli chiesero di essere il loro maestro spirituale.

Questo volume è la raccolta di un centinaio di lettere che Rinpoche scrisse in risposta ai detenuti nel corso degli anni, riunite in una narrazione coerente. Di solito, le sue missive erano di tre o quattro pagine, ma non era raro che arrivassero a quindici o venti fogli dattiloscritti: un uomo ricevette una lettera di addirittura quarantacinque pagine! Rinpoche passava molto tempo a dettare la sua corrispondenza, tornandovi più e più volte nel corso dei giorni, scegliendo con cura le pratiche e i libri più adatti per ciascuno, trovando modi creativi per presentare gli insegnamenti e incoraggiando sempre tutti a non arrendersi mai e a usare il tempo in prigione nel modo più benefico possibile per la propria crescita spirituale.

Tutti i consigli di Rinpoche si inseriscono nelle pratiche avanzate del buddhismo Mahayana conosciute come “addestramento mentale” – in tibetano, lojong – la cui componente essenziale è lo sviluppo un atteggiamento coraggioso che permetta di accogliere le difficoltà della vita e interpretarle in modo diverso: vederle come opportunità, vantaggi e non problemi. Implicito in questo approccio è la visione ultima della realtà: nulla ha una natura intrinsecamente piacevole o spiacevole e questa è la base logica della nostra capacità di affrontare le cose in modo diverso.

Perché dovremmo voler vedere le esperienze spiacevoli come positive? Perché, secondo Buddha, contrariamente alle nostre convinzioni, la causa principale della sofferenza e della felicità non sono le cose in sé – le persone, le circostanze, i luoghi – ma l’interpretazione che ne diamo.

Siamo tutti guidati da un attaccamento primordiale e profondo che ci spinge a cercare soltanto ciò che è piacevole, assuefatti dalla certezza che lì risieda la fonte della felicità. Quando l’attaccamento viene ostacolato, il risultato sono l’avversione e le altre emozioni disturbanti che ne conseguono. E anche quando l’attaccamento ottiene ciò che vuole, il piacere non dura, il che provoca di nuovo frustrazione, rabbia, depressione…. Così passiamo la vita tentando di manipolare il mondo esterno per renderlo conforme ai nostri desideri, oscillando senza sosta tra due estremi: la felicità – quando le cose buone accadono – e l’infelicità, quando non otteniamo ciò che vogliamo.

In apparenza, imparare a vedere la detenzione come qualcosa di positivo non ha senso. Ma l’approccio è pratico, non punitivo o moralistico. Buddha dice che se possiamo cambiare qualcosa, dovremmo farlo. Ma se non possiamo? Questo è il punto da cui inizia la pratica del lojong e questa è la situazione che devono affrontare le persone che scontano lunghe pene in prigione o nel braccio della morte. Non hanno la facoltà di poter cambiare la propria condizione. Non possono evadere. Ma, come sottolinea Rinpoche, possono fuggire dalla propria prigione interiore – tutti noi possiamo – la prigione dell’attaccamento, la prigione della rabbia, la prigione degli altri stati mentali disturbanti e dall’ignoranza che sono la fonte della nostra sofferenza. Il risultato di questa pratica non è semplicemente provare meno attaccamento, meno rabbia, meno paura e quindi sperimentare meno sofferenza. Non è un cambiamento passivo.

Come risultato della pratica, diventiamo più appagati, più coraggiosi, più saggi e, in ultima analisi, sperimentiamo più felicità. Smettiamo di essere sballottati qua e là dagli alti e bassi della vita. Diventiamo emotivamente stabili, soddisfatti e, cosa fondamentale, responsabili della nostra vita interiore. E non solo. In modo del tutto naturale, diventiamo più aperti al prossimo, più empatici: ci rendiamo conto che siamo tutti sulla stessa barca. Poi, avendo imparato ad aiutare noi stessi, possiamo iniziare ad aiutare gli altri.

La detenzione, dice Rinpoche, è un’opportunità preziosa per sviluppare questo meraviglioso potenziale che a lungo termine porta al raggiungimento della propria illuminazione, alla completa eliminazione di tutte le afflizioni mentali e allo sviluppo della perfezione di tutta la saggezza, di tutta la bontà che sono già in noi. Questo, alla fin fine, è il significato della parola “buddha”. Trasformazione interiore non significa però non far nulla per apportare un cambiamento anche esteriore, per la propria libertà dalla prigione o per aiutare gli altri in carcere. Non si diventa passivi, al contrario. Poiché non si è più sopraffatti dalla propria rabbia o dalla propria disperazione, si è capaci di un’azione efficace. Arturo ne è un buon esempio. Mentre approfondiva la sua pratica spirituale, ha rinunciato alla sua affiliazione alle bande – l’unico mondo che aveva conosciuto – si è fatto un’istruzione e quando una nuova legge dello stato della California permise ai detenuti condannati da minorenni come adulti di chiedere la libertà vigilata, con l’aiuto di un avvocato è stato in grado di affrontare considerevoli ostacoli burocratici e, dopo aver trascorso due terzi della sua vita in prigione, è stato rilasciato all’età di quarantuno anni. “Non importa dove vai nella vita, porti te stesso con te”, ha scritto recentemente da Los Angeles, dove ha studiato produzione cinematografica e ha trovato lavoro. “Se ti sei trasformato interiormente, puoi affrontare la vita a cuore aperto e con coraggio”.

Robina Courtin

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