Gli insegnamenti del Buddha al proprio figlio

Gli insegnamenti del Buddha al figlio

Gli insegnamenti del Buddha al proprio figlio

Gli insegnamenti del Buddha al figlio

Gli insegnamenti che il Buddha ha impartito a suo figlio Rahula possono offrirci degli utili spunti per parlare di saggezza spirituale ai più giovani.

Come è noto a molti praticanti buddhisti, il principe Siddharta, il futuro Buddha, lasciò la famiglia per intraprendere il suo viaggio spirituale alla ricerca della Liberazione. Ciò avvenne nel giorno della nascita di suo figlio Rahula. Molti ancora oggi provano sgomento e rabbia per quello che sembra essere un atto irresponsabile.
Quello che è meno conosciuto, invece, è il fatto che dopo il suo Risveglio, il Buddha divenne il principale tutore del ragazzo. A partire dal suo settimo compleanno, Rahula fu posto sotto la tutela del padre, che si dimostrò essere un genitore molto capace. Lo dimostra il fatto che Rahula ottenne la piena illuminazione appena ebbe raggiunto l’età adulta. Quindi ci possiamo chiedere: che tipo di genitore è stato il Buddha? Quale approccio all’educazione del figlio ha adottato?

Com’è riuscito un essere illuminato a trasmettere il suo messaggio spirituale al proprio figlio?

Le scritture non forniscono molti dettagli sul rapporto tra il Buddha e Rahula, ma in esse si trovano diversi elementi che ci permettono di farci un quadro completo di come il maestro ha guidato suo figlio verso la maturazione spirituale. Mentre possiamo leggere la storia di come Rahula arrivò a praticare sotto la guida del padre, molti degli altri elementi utili si trovano in tre discorsi (sutra) i quali, se letti insieme, seguono lo schema dei tre insegnamenti che formano la via per l’illuminazione: quando Rahula aveva sette anni, il Buddha gli insegnò la moralità, quando era un adolescente lo istruì nella meditazione e quando compì vent’anni ricevette gli insegnamenti sulla Saggezza che porta alla liberazione. Il percorso graduale che portò Rahula verso la maturità si svolse in parallelo con il suo progredire sul sentiero, tracciato dal padre, che conduce al risveglio.

Quando il mio figlio più grande compì sette anni iniziai a pensare a quale tipo di formazione spirituale avrei potuto dare a lui e al fratellino. Come minimo, volevo che acquisissero una conoscenza delle pratiche e degli insegnamenti buddhisti tale da permettergli, una volta adulti, di abbracciare la Via se lo avessero desiderato. Inoltre, pensavo che sarebbe stato fantastico se si fossero sentiti a loro agio con il buddhismo in modo tale che, indipendentemente dal percorso di vita intrapreso, avrebbero sempre potuto rivolgersi a esso come una casa sicura, un rifugio. Infine, considerando che la più grande ricchezza che conosco è il benessere, la pace, e la compassione che ho trovato grazie alla mia pratica buddhista, mi sono spesso chiesto come io possa trasmettere questo tesoro in maniera più generale alle nuove generazioni, come una sorta di eredità spirituale.

Ricordando che Rahula fu messo sotto la tutela del padre all’età di sette anni, ho iniziato a scandagliare il canone Pali per cercare di scoprire come il Buddha affrontò l’educazione spirituale del figlio

La questione di come lasciare una “eredità spirituale” è magistralmente descritta nella storia che racconta come Rahula ha iniziato a praticare sotto la guida del padre. Sei anni dopo aver intrapreso il suo viaggio, e un anno dopo aver raggiunto l’illuminazione, il Buddha tornò alla sua città natale. Sollecitato dalla madre, il ragazzo che aveva appena compiuto sette anni si presentò al padre reclamando la sua eredità. Se Siddharta non avesse lasciato la famiglia, Rahula sarebbe stato l’erede al trono ma avendo abbracciato la via della rinuncia, cosa aveva il Buddha da dare? In risposta alla richiesta di Rahula, il Buddha ordinò a Shariputra, il monaco che gli fungeva da assistente, di conferirgli l’ordinazione monastica. Anziché ricevere il trono, Rahula ereditò lo stile di vita del padre, una vita dedicata alla liberazione.
Anche se è alquanto improbabile che a breve mio figlio si raderà il capo e indosserà le vesti monastiche, vorrei metterlo in contatto con i principi fondamentali del buddhismo che hanno avuto una così grande influenza sulla mia vita. Quando mi imbattei nei tre discorsi che illustrano gli insegnamenti che il Buddha diede a Rahula, rimasi sorpreso dalla loro attualità e adeguatezza al compito di far crescere un figlio nell’America di oggi e, pertanto, li ho adottati come la mia guida di genitore.

Moralità

Il primo racconto spiega come Rahula fu educato a vivere una vita virtuosa. Quando aveva otto anni, Rahula raccontò una bugia. Nel sutra chiamato “Prima Lezione a Rahula” (Majjima Nikaya: Raccolta dei Discorsi di Media Lunghezza – nr.61) viene descritto come il Buddha affrontò la questione. Dopo aver meditato, il Buddha andò dal figlio. Come di consuetudine, Rahula gli preparò il cuscino dove sedersi e una ciotola d’acqua per lavarsi i piedi.
Dopo che il padre ebbe terminato di lavarsi, nella ciotola rimaneva ancora un po’ d’acqua, quindi il Buddha chiese: “Rahula, riesci a vedere la poca acqua rimasta?”
“Sì” replicò il figlio.
“Così misera è la vita spirituale di chi non ha pudore di mentire consapevolmente.” E gettata l’acqua, riprese: “Così gettata via è la vita spirituale di chi non ha pudore a mentire consapevolmente” E capovolta la ciotola continuò “Capovolta è la vita spirituale di chi non ha pudore a mentire consapevolmente”. Infine, raddrizzò la ciotola e disse “Vedi come questa ciotola è completamente vuota? Proprio come è vuota la vita spirituale di quelli che non hanno pudore di mentire consapevolmente”
Poi disse a suo figlio: “quando qualcuno non ha pudore di mentire consapevolmente, non c’è malvagità che egli o ella non saranno in grado di compiere. Pertanto, Rahula addestrati a non mentire neanche per scherzo.”
Questa parte della storia mi ricorda che punire i bambini con rabbia serve solo a dare una dimostrazione di forza ma non di sostanza. Il Buddha ha atteso il momento giusto per far valere la sua ragione senza punire o dare in escandescenze.
Dopo questo breve ma efficace rimprovero sul mentire, mi immagino che il Buddha avesse catturato l’attenzione di suo figlio. A quel punto lo esortò a riflettere sul suo comportamento e gli chiese “A cosa serve uno specchio?”
“A riflettere” rispose il giovane Rahula.

Ciò che il Buddha poi disse può essere riassunto come segue:

“Ogniqualvolta che ci si appresta a intraprendere una attività fisica, verbale o mentale bisogna fermarsi a riflettere se tale attività arrecherà danno a noi stessi o ad altri. Se si riconosce che l’azione è dannosa allora dobbiamo astenerci dal compierla. Se, invece, ci rendiamo conto che potrà essere di beneficio, allora è un’azione che vale la pena compiere.”

Quello che mi colpisce è che anziché insegnare a suo figlio a riconoscere i principi assoluti di giusto o sbagliato, il Buddha gli stava insegnando a riflettere su danno e beneficio. Una cosa che richiede consapevolezza ed empatia. Ancorare le decisioni di carattere morale a ciò che è dannoso o di beneficio ci aiuta a proteggere la nostra condotta etica dall’essere guidata da idee astratte che sono scollegate dai possibili effetti del nostro comportamento. Danno e beneficio sono altresì legate allo scopo che noi diamo alla nostra vita poiché ciò che facciamo può deviarci da, o tenerci sulla via che abbiamo deciso di percorrere.
Questo insegnamento rafforza la mia convinzione sull’importanza di coltivare la tendenza innata di un bambino per l’empatia e la sua spontanea capacità di comprendere come le sue azioni possono influire sugli altri. La forza della riflessione e della compassione non deriva solamente dall’essere stati obbligati a esercitarsi in tali pratiche. Piuttosto, deriva dall’aver riconosciuto le stesse qualità negli altri, in particolare nei propri genitori.
Il Buddha, inoltre, istruì Rahula a osservare se dopo aver compiuto un’azione il risultato sia stato o meno dannoso. In caso affermativo Rahula avrebbe dovuto rivolgersi a una persona saggia e confessare il fatto come parte della strategia per migliorarsi nel futuro. Da questo ho imparato l’importanza di aiutare un bambino a sviluppare la capacità di ammettere i propri errori. Tale capacità, però, dipende molto da come i genitori reagiscono agli errori commessi dai propri figli. Ancora una volta dobbiamo sottolineare come il modo di porsi e di agire dei genitori siano cruciali per lo sviluppo dell’etica dei propri figli; se il genitore è affidabile e più incline ad aiutare che a punire, allora il bambino sarà portato a sviluppare una maggiore integrità morale.

Meditazione

Il secondo sutra (Seconda Lezione a Rahula) parla di come il Buddha iniziò a insegnare a Rahula le tecniche di meditazione come strumento per sviluppare il fondamento del benessere interiore (Majjima Nikaya: Raccolta dei Discorsi di Media Lunghezza – nr.62).
Il racconto ha luogo quando Rahula è un adolescente e inizia quando, durante la questua quotidiana, Rahula confessa a suo padre alcuni pensieri presuntuosi ed egocentrici derivanti dalla consapevolezza della propri avvenenza.
Notando il suo disagio, il Buddha disse “Se osservato con saggezza, il corpo fisico non dovrebbe essere considerato come “me”, “me stesso” o “mio”. Di fatto, non si dovrebbe applicare la nozione di mio anche agli atri aggregati di sensazione, percezione, fattori mentali o coscienza.” Nell’udire queste parole, Rahula si sentì rimproverato e rientrò al monastero senza aver raccolto del cibo.
Immagino che per un giovane adolescente questo insegnamento debba essere stato parecchio radicale. Non ho difficoltà a riconoscere che alla stessa età io non avrei minimamente compreso si significato delle parole del Buddha. Mi ricordo fin troppo bene, invece, come a quell’età io fossi preoccupato per il mio aspetto. Ho spesso sentito dire che questo atteggiamento è accettabile negli adolescenti in quanto è parte del processo di autoaffermazione. E’ quindi giusto riprendere un ragazzo di quattordici anni perché ha espresso vanità? Il Buddha stava interferendo con il naturale processo di sviluppo che ogni adolescente deve affrontare e gestire da solo?

Senza aver sviluppato una forte consapevolezza del sé come può un giovane crescere e diventare un adulto psicologicamente sano ed equilibrato?

Le risposte del Buddha a queste domande si trovano nelle sue azioni successive.
La sera dopo essere stato rimproverato, Rahula andò da suo padre e chiese di ricevere delle istruzioni sulla pratica della meditazione sul respiro. Il Buddha iniziò descrivendo delle analogie per illustrare come applicarsi alla meditazione con sentimento equanime. Egli disse: “Sviluppa una meditazione che sia come la terra; visto che la terra non è turbata dalle cose piacevoli o spiacevoli con cui viene a contatto, se tu mediti come la terra, le esperienze piacevoli o spiacevoli non avranno effetto su di te. Sviluppa una meditazione che sia come l’acqua, come il fuoco, come l’aria e come lo spazio: tutti questi elementi non sono influenzati da esperienze piacevoli o spiacevoli e, pertanto, se tu mediterai come l’acqua, il fuoco, l’aria e lo spazio anche tu sarai imperturbabile. “
Poi, prima ancora d’iniziare a istruirlo sulla meditazione sul respiro, il Buddha disse a suo figlio che doveva meditare sull’amorevole compassione quale antidoto all’ostilità, sulla compassione per sconfiggere la crudeltà, sul godere del benessere altrui per dominare il malcontento e sull’equanimità per soggiogare l’avversione.

Solo allora il Buddha gli insegnò la meditazione sul respiro utilizzando la formulazione classica dei sedici stadi

Questi stadi prevedono delle fasi per portare mente e corpo in quiete, sviluppare benessere e consapevolezza. Poi, per rafforzare tali insegnamenti, il Buddha concluse dicendo che così facendo anche gli ultimi respiri cessano consapevoli.
Leggendo di come il Buddha ha insegnato a suo figlio la meditazione sul respiro per sviluppare un forte senso di beatitudine interiore, ho intuito come questo sia una valida alternativa allo sviluppo di una forte concezione del sé. Mi chiedo in quale misura i tentativi degli adolescenti per affermarsi e distinguersi non siano alimentati dall’essere a disagio con loro stessi e con gli altri. Immagino che tutto sarebbe più semplice se questo processo evolutivo si basasse, invece, sull’essere a proprio agio con se stessi e imperturbabili in presenza di altri.
Insegnando meditazione ai ragazzi ho notato che all’età di tredici o quattordici anni sperimentano un salto in avanti nella loro abilità. Sono rimasto molto impressionato dalla facilità con cui alcuni adolescenti entrano in uno stato meditativo profondo – anche se non durano molto. Ho conosciuto dei giovani per i quali la meditazione è diventata un importante strumento per trovare stabilità e serenità nel mezzo delle turbolenze adolescenziali.
Ma la meditazione sul respiro non è importante solo per aiutarci ad affrontare le sfide della crescita. Essa rappresenta un valido strumento da utilizzare in ogni momento della propria vita. In questo sutra, il Buddha ha concluso il suo insegnamento indicando a suo figlio il valore di questa pratica meditativa come preparazione alla propria morte.

Saggezza

Nel terzo e ultimo sutra (Istruzione a Rahula), il Buddha guida Rahula attraverso una serie di domande. Il loro scopo è portarlo, infine, alla liberazione (Majjima Nikaya: Raccolta dei Discorsi di Media Lunghezza – nr. 147).
Rahula aveva ormai dedicato buona parte della sua adolescenza ad addestrarsi sulla via che porta al risveglio. Quando compì vent’anni, il padre realizzò che era ormai prossimo all’ottenimento della liberazione. A questo punto il Buddha fece una cosa che io trovo molto toccante. Andò a passeggiare con il figlio in una selva di maestosi alberi di Sal.
Sedutosi ai piedi di uno di questi grandi alberi, sottopose Rahula a una scrupolosa interrogazione in merito alle basi utilizzate per afferrarsi all’idea del sé. Il metodo usato dal Buddha fu quello di portare il figlio ad allentare progressivamente l’incantesimo dell’esistenza del sé. Per qualcuno così ben addestrato come Rahula, la tendenza ad aggrapparsi a una qualche idea di un sé autonomo, può rappresentare l’ultimo ostacolo alla liberazione. Mentre ascoltava le parole del padre, il sorgere di una chiara comprensione della natura impersonale dei fenomeni ha rappresentato per Rahula il superamento di quest’ultima barriera e l’ottenimento della liberazione.

Gli insegnamenti del Buddha sul “non-sé” possono essere sconcertanti

È facile etichettarli come filosofia astratta e, così facendo, non cogliere che sono in realtà istruzioni pratiche su come trovare la felicità attraverso la pratica del lasciar andare. Per me è importante il fatto che il Buddha scelse d’impartire questo insegnamento a Rahula stando seduti nel profondo di un bosco. Io stesso ho notato come cambia la mia prospettiva quando mi trovo immerso nella natura piuttosto che in un contesto urbano. Trovo che il senso di pace e beatitudine che la natura può far sorgere faciliti l’abbandono della mente egocentrica. Contemplare il “lasciar andare” mentre si legge un libro di filosofia buddhista seduti in casa propria è molto diverso dal farlo circondato da alberi. Leggendo questo terzo discorso, ho riflettuto a lungo sull’utilità di conoscere se stessi in un contesto naturale.
Quando all’età di sette anni Rahula chiese al padre l’eredità che gli spettava, non si poteva certo immaginare che tredici anni dopo avrebbe ricevuto il più grande dono che un genitore può trasmette a un figlio. Nel buddhismo il risveglio è considerato come la felicità suprema. Mentre valuto le aspirazioni dei miei due figli, io gli auguro di ottenere la pace, felicità e sicurezza che la Via per il risveglio può dare. Forse, nei diversi momenti della loro crescita, anche loro potranno essere avviati all’addestramento sulla moralità, la meditazione e la saggezza.


Articolo tradotto da Ivano Colombo, pubblicato su Tricycle

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