I cinque aggregati

I cinque aggregati

Il primo dei 5 aggregati è l’aggregato della materia (rūpakkhandha) che include i tradizionali quattro grandi elementi – ossia solidità, fluidità, calore e movimento – e i loro derivati, che comprendono i nostri cinque organi di senso materiali (ossia l’occhio, l’orecchio, il naso, la lingua e il corpo) e i loro corrispondenti oggetti nel mondo esterno (ossia la forma visibile, il suono, l’odore, il sapore e gli oggetti tangibili), e anche alcuni pensieri, idee o concetti che appartengono alla sfera degli oggetti mentali (dharmāyatana). L’intero regno della materia, interna o esterna, è quindi incluso nell’aggregato della materia.

Il secondo è l’aggregato delle sensazioni (vedanākkhandha). Comprende tutte le sensazioni — piacevoli, spiacevoli o neutre — che sperimentiamo attraverso il contatto degli organi fisici e mentali con il mondo esterno. Sono di sei tipi: sensazioni sorte dal contatto dell’occhio con le forme visibili, dell’orecchio con i suoni, del naso con gli odori, della lingua con i sapori, del corpo con gli oggetti tangibili e della mente (che è la sesta facoltà sensoriale nella filosofia buddhista) con gli oggetti mentali o pensieri o idee. In questo gruppo sono quindi incluse tutte le nostre sensazioni fisiche e mentali.

E utile soffermarci sul significato che il termine mente (manas) assume nella filosofia buddhista. Va compreso con chiarezza che la mente non è lo spirito in quanto opposto alla materia. Il Buddhismo infatti non contempla questo concetto, accettato invece dalla maggior parte degli altri sistemi filosofici e religiosi. La mente è solo uno dei sei organi o facoltà sensoriali (indriya), come l’occhio o l’orecchio e come ogni altra facoltà, deve essere controllata e disciplinata. Il Buddha parla spesso dell’importanza del controllo e della disciplina di queste sei facoltà. La differenza tra l’occhio e la mente, in quanto facoltà, è che il primo percepisce il mondo dei colori e delle forme visibili, mentre la seconda percepisce il mondo delle idee, dei pensieri e degli oggetti mentali. Facciamo esperienza dei diversi ambiti del mondo attraverso differenti sensi: non possiamo ascoltare i colori, ma li possiamo vedere, non possiamo vedere i suoni, ma possiamo ascoltarli. Così con i nostri cinque organi di senso fisici — occhio, orecchio, naso, lingua, corpo — sperimentiamo il mondo delle forme visibili, dei suoni, degli odori, dei sapori e degli oggetti tangibili. Ma questi rappresentano solo una parte del mondo, non il mondo nel suo complesso. E le idee e i pensieri?

Anch’essi sono parte del mondo, ma non possono essere percepiti dalle facoltà dell’occhio, dell’orecchio, del naso, della lingua o del corpo. Possono però essere percepiti da un’altra facoltà, quella mentale. Le idee e i pensieri, inoltre, non sono indipendenti dal mondo che conosciamo attraverso le cinque facoltà di senso fisiche, ma dipendono e sono condizionati dalle esperienze materiali. Per cui una persona nata cieca non può avere l’idea del colore, se non attraverso l’analogia con i suoni o con altre sensazioni che sperimenta con le altre facoltà. Pertanto le idee e i pensieri che formano una parte del mondo sono prodotti e condizionati dalle esperienze fisiche e sono concepiti dalla mente. Ecco perché la mente è considerata una facoltà o un organo di senso come l’occhio o l’orecchio.

Il terzo è l’aggregato delle percezioni (sannākkhandha). Come le sensazioni, anche le percezioni sono di sei tipi, in relazione alle sei facoltà interne e ai sei corrispondenti oggetti esterni; anch’esse sono prodotte dal contatto delle nostre facoltà con il mondo esterno. Sono le percezioni che riconoscono gli oggetti, sia fisici sia mentali.

Il quarto è l’aggregato delle formazioni mentali (samkhārakkhandha). In questo gruppo sono comprese tutte le attività che dipendono dalla volontà, sia nel bene che nel male. Quello che è generalmente noto come karma (pāli kamma) fa parte di questo gruppo. Il Buddha stesso ha detto: « O monaci, è la volizione (cetanā) che io chiamo karma. Avendolo voluto, un uomo agisce con il corpo, la parola o la mente ». La volizione è «l’atteggiamento mentale, l’attività mentale. La sua funzione è di dirigere la mente nella sfera delle attività buone, cattive o neutre ». 

Come le sensazioni e le percezioni, la volizione è di sei tipi, connessa con le sei facoltà interne e i corrispondenti sei oggetti (fisici e mentali) esterni.  Le sensazioni e le percezioni non sono azioni volontarie; non producono effetti karmici. Solo l’azione volontaria — come l’attenzione (manasikāra) , l’intenzione (chanda), la determinazione (adhimokkha), la fede (saddhā), la concentrazione (samādhi) , la saggezza (pannā) , l’energia (viriya) , il desiderio (rāga), l’avversione o odio (patigha) , l’ignoranza (avijjā) , la vanità (māna) , l’idea del sé (sakkāya-ditthi) , ecc. — può produrre effetti karmici. Ci sono cinquantadue fattori mentali di questo tipo ed essi costituiscono l’aggregato delle formazioni mentali.

Il quinto è l’aggregato della coscienza (viññāpakkhandha). La coscienza è una reazione o una risposta che ha la propria base in uno dei sei organi-facoltà (occhio, orecchio, naso, lingua, tatto e mente), e il proprio oggetto in uno dei sei corrispondenti fenomeni esterni (forma visibile, suono, odore, sapore, oggetti tangibili e oggetti mentali, ossia un’idea o un pensiero). Per esempio, la coscienza visiva (cakkhu-viññāna) ha l’occhio come base e una forma visibile come oggetto. La coscienza mentale (manoviññāna) ha la mente (manas) come base e un oggetto mentale, ossia un’idea o un pensiero (dhamma), come oggetto. Pertanto la coscienza è connessa con le altre facoltà. Quindi, come la sensazione, la percezione e la volizione, anche la coscienza è di sei tipi in relazione alle sei facoltà interne e ai sei corrispondenti oggetti esterni.

Occorre avere ben chiaro che la coscienza non riconosce un oggetto, ma è solo una sorta di consapevolezza, la consapevolezza della presenza di un oggetto. Quando l’occhio entra in contatto con un colore, per esempio il blu, sorge la coscienza visiva che è semplicemente consapevolezza della presenza di un colore, ma che non riconosce che è blu. Non c’è riconoscimento a questo stadio. E’ la percezione (il terzo aggregato a cui abbiamo accennato) che riconosce il blu. Il termine «coscienza visiva» è un’espressione filosofica che denota la stessa idea contenuta nella parola «vedere» e vedere non significa riconoscere. Così avviene anche per le altre forme di coscienza.

Secondo la filosofia buddhista non c’è uno spirito permanente e immutabile che possa essere considerato come «sé », «anima» o «ego », opposto alla materia, e la coscienza (viññāna) non va intesa come «spirito» in contrapposizione alla materia. Questo punto deve essere ben chiaro, perché l’idea erronea che la coscienza sia una sorta di sé o di anima, che perdura come entità permanente per tutta la vita, resiste dai tempi più antichi fino a oggi.

Un discepolo del Buddha di nome Sāti pensava che il Maestro avesse insegnato: «E’ la coscienza stessa che trasmigra e vaga ». Il Buddha gli chiese quale significato lui desse a questa «coscienza». La risposta di Sāti è la classica: «E ciò che si esprime, che sente, che esperisce i risultati delle buone e delle cattive azioni». «A chi mai, sciocco» obiettò il Maestro «hai sentito che io abbia insegnato la dottrina in questo modo? Non ho spiegato in molti modi che la coscienza sorge a causa di condizioni: che la coscienza non nasce se non ci sono le condizioni?». Allora il Buddha proseguì spiegando in dettaglio cos’è la coscienza: «La coscienza è definita in base alla condizione per mezzo della quale nasce: a causa dell’occhio e di una forma visibile nasce una coscienza ed è chiamata coscienza visiva; a causa dell’orecchio e dei suoni nasce una coscienza ed è chiamata coscienza uditiva; a causa del naso e degli odori nasce una coscienza ed è chiamata coscienza olfattiva; a causa della lingua e dei sapori nasce una coscienza ed è chiamata coscienza gustativa; a causa del tatto e degli oggetti tangibili nasce una coscienza ed è chiamata coscienza tattile; a causa della mente e degli oggetti mentali (idee e pensieri) nasce una coscienza ed è chiamata coscienza mentale».

Il Buddha fece quindi un esempio: un fuoco è definito in base al materiale del suo combustibile. Un fuoco può ardere a causa del legno e viene definito come un fuoco di legno. Può ardere a causa della paglia e allora è chiamato un fuoco di paglia. Allo stesso modo la coscienza è definita in base alle condizioni per mezzo delle quali sorge. Insistendo su questo punto, Buddhaghosa, il grande commentatore, spiega: «Un fuoco che arde a causa del legno arde solo se c’è disponibilità (di combustibile), ma si estingue in quello stesso luogo se l’approvvigionamento non c’è più, perché a quel punto le condizioni sono cambiate, ma il (fuoco) non si trasmette alle schegge, ecc., diventando un fuoco di schegge e così via; allo stesso modo la coscienza che sorge a causa dell’occhio e della forma visibile sorge nella porta dell’organo di senso (l’occhio) esclusivamente quando esistono le condizioni dell’occhio, della forma visibile, della luce e dell’attenzione, ma cessa appena (le condizioni) non ci sono più perché sono cambiate, e la coscienza non si trasmette all’orecchio, ecc., diventando coscienza uditiva e così via ».

Il Buddha ha dichiarato in termini inequivocabili che la coscienza dipende dalla materia, dalla sensazione, dalla percezione e dalle formazioni mentali, e non può esistere indipendentemente da esse. Egli dice: « La coscienza può esistere avendo la materia come mezzo (rūpupāyam), la materia come oggetto (rūpārammanam) e la materia come supporto (rūpapatittham) , e inseguendo il piacere può crescere, ingrandirsi e svilupparsi; oppure la coscienza può esistere avendo le sensazioni come mezzo … o le percezioni come mezzo … o le formazioni mentali come mezzo, le formazioni mentali come oggetto, le formazioni mentali come supporto, e inseguendo il piacere può crescere, ingrandirsi e svilupparsi.

« Se un uomo dicesse: io mostrerò l’andare, il venire e lo svanire, la nascita, la crescita, l’incremento o lo sviluppo della coscienza indipendentemente dalla materia, dalla sensazione, dalla percezione e dalle formazioni mentali, egli parlerebbe di qualcosa che non esiste».

In estrema sintesi, questi sono i cinque aggregati. Quello che chiamiamo un «essere», un «individuo» o un «io» è solo un nome convenzionale o un’etichetta che noi diamo alla combinazione di questi cinque aggregati. Essi sono tutti impermanenti e in perpetuo mutamento. «Tutto ciò che è impermanente è dukkha» (yad aniccam tam dukkham). Questo è il vero significato delle parole del Buddha: «In breve, i cinque aggregati dell’attaccamento sono dukkha». Essi non sono uguali neanche per due momenti successivi. Qui A non è uguale ad A. Essi sono in un flusso di apparizioni e sparizioni istantanee.

« O brāhmana, è proprio come un fiume di montagna che scorre via, veloce portando tutto con sé; non c’è un momento, un istante, un secondo in cui fermi il suo fluire, ma sempre continua a scorrere. Così, brāhmana, è la vita umana, come un fiume di montagna ». 

Come disse il Buddha a Ratthapāla: «Il mondo è un flusso continuo ed è impermanente».

Da: Walpola Rahula, What the Buddha tought

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