Molte persone considerano la rinuncia come qualcosa di vagamente di masochistico, come se significasse dover fare a meno di tutti i piaceri e alle comodità della vita. Ecco perché dobbiamo comprendere correttamente che cosa intendiamo con rinuncia nel contesto buddhista.
La rinuncia ha due aspetti. Il primo è una forte determinazione a liberarci definitivamente sia dai nostri problemi sia dalle loro cause. È importante sottolineare che non desideriamo che qualcun altro ce ne liberi, ma che siamo fermamente intenzionati a farlo da noi, in prima persona: vogliamo liberarci dai nostri problemi e dalle loro cause, in modo che non si ripresentino mai più. Ciò non significa limitarci ad adottare qualche palliativo, come prendere una pillola o fare un bagno caldo, in modo da ottenere un sollievo temporaneo. Siamo consapevolmente disposti a sondare molto in profondità per scoprire e sradicare la causa fondamentale delle nostre difficoltà nella vita. Ci vuole molto coraggio per farlo! E da dove deriva? Questo coraggio deriva dall’essere totalmente disgustati e annoiati dalla scarsa qualità di ciò che sperimentiamo nella vita, dalla la nostra costante infelicità e tensione, per esempio. Con la rinuncia, decidiamo che ne abbiamo avuto abbastanza. Dobbiamo assolutamente liberarci.
Il secondo aspetto corrisponde più da vicino all’accezione occidentale della parola rinuncia. Siamo determinati non solo a liberarci, ma per farlo siamo disposti a sacrificare qualcosa. Non si tratta di rinunciare a qualcosa di banale, come guardare la TV o mangiare un gelato, o a qualcosa di per nulla banale, come avere rapporti sessuali, rilassarci oppure divertirci. Dobbiamo lasciar andare i nostri problemi e tutti i livelli delle loro cause. Potremmo essere disposti a rinunciare al problema, ad esempio di essere infelici, perché è doloroso ma lasciare andare anche i primi livelli delle cause è una questione diversa. La causa abituale di primo livello dei nostri problemi sono i tratti autodistruttivi della nostra personalità. Dobbiamo essere disposti a sacrificarli. Dobbiamo rinunciare ai nostri attaccamenti, alla rabbia, all’egoismo e, in questo caso, al nervosismo, alla tensione e alla preoccupazione costante. Se non siamo totalmente disposti a rinunciare a questi fattori di disturbo, non potremo mai liberarci della nostra frustrazione. Ma è molto più difficile rinunciare alle preoccupazioni che smettere di fumare o di guardare la televisione, eppure è proprio su questo che dobbiamo concentrarci quando cerchiamo di sviluppare la rinuncia.
Molte persone che si avvicinano al Buddhismo sono disposte a sacrificare una o due ore della loro giornata per eseguire qualche pratica rituale o impegnarsi nella meditazione. Rinunciare al tempo è relativamente facile, anche se la loro vita può essere molto impegnata. Ma non sono disposte a cambiare nulla della loro personalità, non sono disposte a rinunciare a nulla del loro carattere negativo. Con questo tipo di approccio al Buddhismo, non importa quanta meditazione facciamo, la nostra pratica rimane solo un hobby o uno sport. Non trasforma la nostra vita.
Per superare effettivamente i nostri problemi, dobbiamo essere disposti a cambiare, cioè a cambiare la nostra personalità. Dobbiamo rinunciare e liberarci di quegli aspetti negativi che ci causano tanti problemi. Questo richiede ancora più coraggio – una quantità enorme di coraggio – per andare avanti in un nuovo territorio della nostra vita. Ma è sicuramente possibile farlo, anche se all’inizio può essere un po’ spaventoso. Facciamo un esempio: l’acqua di una piscina potrebbe essere molto fredda ma se, in estate, siamo davvero accaldati e sudati allora, poiché non ne possiamo più di sentirci a disagio, abbiamo il coraggio di tuffarci. Siamo disposti a rinunciare, a rinunciare non solo ad avere un gran caldo, ma anche alla causa di quel disagio, ossia al fatto di essere sotto il sole caldo e non in piscina. Quando ci tuffiamo per la prima volta, ovviamente ci sentiamo congelare. È un grande shock per il nostro corpo, ma presto ci abituiamo a quella temperatura e scopriamo che è molto più confortevole che starsene a bordo della piscina a sudare. Quindi, è possibile avere questo coraggio, la determinazione a liberarsi delle nostre qualità negative, e il coraggio di essere disposti a rinunciarvi.
Dobbiamo anche avere il coraggio di sondare sempre più a fondo la fonte dei nostri problemi. Essere nervosi, tesi e preoccupati, ad esempio, è sia una causa di infelicità che il risultato di qualcosa di più profondo. Con la motivazione di primo livello, modifichiamo il nostro comportamento per evitare che il nostro problema peggiori. Cerchiamo di smettere di correre sempre e di fare qualcosa per rilassarci, come misura iniziale per ridurre e alleviare lo stress e la tensione. Ma ora, in aggiunta, dobbiamo scoprire il processo interiore che sta alla base della tensione. Se indaghiamo più a fondo, ci rendiamo conto che il nostro affannarci è il risultato della nostra tensione o la circostanza in cui la nostra tensione si manifesta. Tuttavia, non è la vera causa. C’è qualcosa di più profondo che è responsabile di questo stato d’animo che abbiamo ci agitiamo: siamo costantemente preoccupati, per esempio. Ma dobbiamo andare ancora più a fondo per scoprire perché siamo sempre così ansiosi e preoccupati.
La natura della realtà è che i contenuti di ciò che sperimentiamo, come i panorami, i suoni, i pensieri e le emozioni, sono tutti oggetti che sorgono a seconda della mente. Non esistono indipendentemente ‘là fuori’, separatamente dal processo di una mente che li sperimenta. Il traffico è molto diverso dalla vista del traffico riflessa sulla retina dei nostri occhi in relazione alla cognizione visiva. Ciò che sperimentiamo effettivamente è la seconda, la vista del traffico, mentre il primo, il traffico stesso, è solo ciò che chiamiamo, nell’analisi buddhista, la condizione dell’esperienza del traffico. È ciò a cui mira l’esperienza, ma non ciò che appare effettivamente alla mente che la sperimenta. Inoltre, la nostra mente non dà luogo semplicemente all’apparenza che costituisce il contenuto della nostra esperienza, ma anche all’apparenza di un modo di esistenza di questi contenuti che normalmente non corrisponde alla realtà. Normalmente, ci fissiamo sui contenuti della nostra esperienza e immaginiamo, o fraintendiamo, che esistano indipendentemente dal fatto che siano semplicemente ciò che la mente fa nascere in un modo o nell’altro come parte di un’esperienza.
Fissandoci su questi contenuti e immaginando che esistano solidamente “là fuori” – come sembrano essere – ci innervosiscono e ci preoccupano, il che è la fonte della nostra tensione e quindi della nostra infelicità. Questo perché se crediamo che siano effettivamente “là fuori”, c’è ben poco da fare. Quindi ci sentiamo impotenti e senza speranza.
Ma se spostiamo la nostra attenzione dai contenuti della nostra esperienza al processo dell’esperienza stessa e, da questo punto di vista, comprendiamo la relazione tra la mente e la realtà che sperimentiamo impareremo a decostruire la nostra esperienza e i suoi contenuti da solidi e spaventosi a qualcosa di fluido e gestibile. Per effettuare questo cambio di prospettiva, è necessaria una forte rinuncia alla nostra fissazione morbosa sui contenuti della nostra esperienza e sul modo in cui immaginiamo che esistano.
Tratto e tradotto da The Gelug-Kagyu Tradition of Mahamudra