Meditazione sul Tong-len

Questo insegnamento è stato dato dalla Ven. Sangye Khadro presso il Centro Ewam di Firenze il 10 ottobre 2001.

Per quello che ho capito, stasera parleremo e faremo insieme la meditazione del Tong-len. Vi chiedo soltanto: quanti di voi vengono regolarmente a questa meditazione? Cioè, tutte le settimane? E quanti di voi non sono mai venuti prima? Qualcuno di voi magari non sa assolutamente niente del Buddhismo? (Rivolta a una studentessa) Quindi, è la prima volta che sei qua? Benvenuta, dunque.

Perciò, perché non iniziamo con lo stare seduti per pochi momenti in silenzio in modo da favorire uno stato della mente pacifico e calmo? Cercate di stare seduti il più confortevolmente possibile, però è una cosa buona se riuscite a tenere la vostra schiena eretta. Perché la schiena eretta permette alla mente di essere più chiara e quindi di essere più concentrata. Dall’altra parte, il tenere la schiena eretta permette al resto del corpo di rilassarsi, per cui cerchiamo di rilassare tutti i muscoli del nostro corpo. Cerchiamo di abbandonare tutte le tensioni che possono essere presenti nel nostro corpo, e cerchiamo di respirare naturalmente. Rilassiamo la mente, e cerchiamo di fare questo abbandonando, lasciando da parte tutti i pensieri che possono essere presenti nella nostra mente sulle cose che abbiamo fatto oggi o in qualunque altro momento del passato.

Cerchiamo anche di non far vagare la nostra mente sul futuro pensando a quello che possiamo fare domani, stasera o in qualunque altro momento nel futuro. Cerchiamo quindi di far sì che la nostra mente sia presente qui, in questo momento e in questo posto! E cerchiamo di essere consapevoli del ritmo gentile del nostro respiro che entra ed esce.

Quindi, continuando a tenere gli occhi chiusi, chiedetevi qual è il motivo, la ragione che vi ha spinti ad essere qui stasera. Probabilmente nel porci questa domanda forse possiamo scoprire che non siamo proprio sicuri del motivo, o forse la motivazione non è così positiva. Ma è importante avere una buona motivazione per essere qui stasera, in modo che il risultato di quello che facciamo qui questa sera possa essere del massimo beneficio. Perché quello che facciamo questa sera è una meditazione che è stata insegnata dal Buddha per il beneficio di tutti gli esseri senzienti, per cui è importante per noi avere una motivazione che sia pari a questa. Perciò adesso, cercando di tenere in mente il fatto che la motivazione che ci spinge a essere qui è quella di imparare e di fare insieme questa meditazione per il nostro beneficio e per il beneficio degli altri esseri, quando vi sentite pronti potete aprire gli occhi e rilassarvi.

Penso di iniziare parlando di che cos’è la meditazione del Tong-len, probabilmente dirò delle cose che per qualcuno di voi non sono affatto nuove, perché la state facendo da un po’ di tempo e quindi probabilmente non dirò niente che non conosciate già, per cui in questo caso siate pazienti, per favore. Però ci sono anche delle persone che sono nuove e non hanno mai fatto questa meditazione, per cui spero che la spiegazione possa essere loro di beneficio.

Per quella che è la mia comprensione, io credo per la verità che la meditazione del Tong-len sia una pratica decisamente avanzata perché per eseguirla appropriatamente, in maniera appropriata, in realtà bisogna avere già una certa comprensione di quelli che sono gli insegnamenti fondamentali del Buddha. In realtà è necessario comprendere ciò che ha insegnato il Buddha non soltanto a livello meramente intellettuale, ma proprio comprenderlo con il cuore, perché lo stato principale della mente di cui abbiamo bisogno per fare questa pratica è quella che viene chiamata la compassione.

Spiego che cosa intendiamo per compassione, perché dal punto di vista buddhista si dà un’accezione che è diversa da quella normalmente utilizzata in Occidente. Il termine compassione viene spiegato con questa definizione: il desiderio che gli altri siano liberi dalla sofferenza. E questo implica che si debba veramente e profondamente comprendere la sofferenza, i dolori che gli altri possono avere e sperimentare. E di conseguenza, essere in contatto, essere toccati dalla sofferenza che noi vediamo negli altri esseri, e avere un sentimento di empatia nei loro confronti. Anche cercare di fare tutto ciò che ci è possibile per aiutarli, ed è molto importante distinguere quella che è la compassione da un altro tipo di attitudine, che può essere simile per alcuni aspetti, che però noi possiamo indicare con il termine pietà. Perché con il termine “pietà” potremmo forse indicare il sentimento di quando vediamo o sappiamo di qualcuno che soffre ma proviamo quasi un senso di superiorità nei confronti di questa persona che guardiamo dall’alto verso il basso, come se la mettessimo in una posizione di inferiorità rispetto a noi. E credo possa anche implicare una certa quantità di paura o di avversione nei confronti della sofferenza che quella persona sta sperimentando. E quindi, per esempio, se ci chiediamo cos’è che noi sentiamo nel momento in cui vediamo un mendicante vestito di stracci che siede per strada a chiedere soldi, possiamo anche provare un senso di tristezza nel vedere questa persona e pensare che è triste che questa persona sia in questa situazione. Può anche darsi che noi diamo qualcosa a questa persona, sia denaro o cibo, ma cerchiamo veramente di prendere in considerazione di metterci nei panni di questa persona, di prendere in considerazione la situazione in cui si trova questa persona? Proviamo forse un senso di uguaglianza e di identità con questa persona o, piuttosto, un senso di superiorità, di separazione da questa persona? E da qualche parte, nel profondo della nostra mente, non pensiamo forse: “Oh, come sarebbe terribile, o come sarebbe assolutamente disdicevole se questa cosa succedesse anche a me, se io fossi in questa situazione! Come sono contento di non esserci”? Quindi, quando noi abbiamo un sentimento di questo tipo, cioè quando sperimentiamo questo senso di separazione dalla persona, quello che proviamo è molto probabilmente più un senso di pietà che non di compassione.

Per esempio, se prendiamo in considerazione gli eventi tragici di questo ultimo periodo – tutta una serie di aerei che sono caduti, sono esplosi, di attacchi, le seimila persone che sono morte – tutti noi possiamo aver preso in considerazione, siamo stati diciamo colpiti, e tristi per questo. Sarebbe bene chiederci che tipo di reazione veramente è scattata nella nostra mente di fronte a questi eventi. E quindi vedere se non c’è da qualche parte un senso quasi di sollievo nel dire: “Oh, come sono contento di non essere stato su uno di quegli aerei o in uno di quegli edifici quando sono stati attaccati!”. Di nuovo, questo è un sentimento di pietà, non è compassione.

Perché la compassione è un sentimento che implica un senso di empatia, una comprensione profonda. E nel Buddhismo viene detto che, per essere capaci di avere una vera effettiva compassione nei confronti degli altri, per prima cosa la si deve sviluppare nei confronti di noi stessi. E per poter generare compassione nei confronti di noi stessi, bisogna avere una comprensione molto profonda della nostra situazione e della nostra sofferenza. È una comprensione che non riguarda soltanto quello che è lo stato più superficiale della nostra sofferenza, quindi il poter essere malati, infelici o depressi, ma quello che è il suo stato più profondo. C’è una spiegazione di quelli che sono i tre tipi principali di sofferenza che probabilmente molti di voi già conoscono, ma probabilmente non vi dispiacerà se li ripeto, perché in effetti è un argomento molto profondo ed estremamente importante:

  • Il primo dei tre tipi di sofferenza normalmente viene indicato con il termine sofferenza della sofferenza, per quello che riguarda questo primo tipo di sofferenza questo include tutti i tipi di problemi più ovvi che possiamo sperimentare. Dal punto di vista fisico, ad esempio l’essere malati o il provare dolore in parti del corpo, come tutte quelle che sono le differenti esperienze che il corpo necessariamente attraversa nell’invecchiamento. Comprende tutte quelle che sono le sensazioni fisiche spiacevoli, dall’avere un mal di testa o problemi di pelle o all’essere disturbati dalle zanzare, e include però anche tutti i tipi di sofferenze mentali, quindi tutte le sofferenze che la nostra mente può sperimentare, come l’essere infelici, il sentirsi soli o feriti, o l’essere depressi. In questa categoria della “sofferenza della sofferenza” ricade una grande varietà di problemi: tutte quelle esperienze, fisiche o mentali, che noi percepiamo come un problema, come un qualcosa di doloroso. Questo è un qualcosa semplice da capire, e si tratta di un tipo di sofferenza molto facile da individuare, perché è molto facile riconoscerlo in noi stessi, quando siamo infelici o tristi, ed è anche molto semplice riconoscerlo negli altri quando questi si lamentano, piangono, o comunque dimostrano che stanno male.
  • Il secondo tipo di sofferenza viene chiamato la sofferenza del cambiamento, e non è altrettanto facile da vedere. Include tutta una serie di esperienze che noi normalmente classificheremmo come piacevoli o di felicità. Ma dal punto di vista buddhista, queste sono considerate esperienze di sofferenza perché non durano. Sono impermanenti. Quindi in questo tipo di sofferenza potrebbero rientrare tutti quei tipi di esperienza fisica come, per esempio, il mangiare un buon pasto, o nuotare nel mare, o stare sdraiati al sole… Perché mentre li stiamo sperimentando siamo felici e ne stiamo gioendo, ma poiché queste esperienze inevitabilmente dovranno finire – che sia nell’arco di pochi secondi, di ore, di giorni o di mesi – queste non vengono identificate come vera felicità. E in questa categoria di sofferenze rientrano però anche esperienze mentali, ad esempio la felicità o la contentezza che possiamo sperimentare se vinciamo un premio, o raggiungiamo o realizziamo qualcosa che ci eravamo prefissi; oppure se qualcuno ci dice qualcosa di carino, di piacevole, perché anche queste sono esperienze che non sono destinate a durare, sono momentanee. E ciò che succede, rispetto a questo tipo di esperienze, è che, per quanto cerchiamo di trattenerle e di non farle finire, noi non ne abbiamo il controllo e quindi siamo destinati a fallire. È questo è un qualcosa che probabilmente è accaduto a tutti noi: per esempio andando in vacanza da qualche parte, o in un ristorante particolarmente carino dove abbiamo gustato un buon pasto. Abbiamo avuto una buona serata e può darsi che ci torneremo una seconda volta ordinando le stesse cose, o cercando di ricreare lo stesso tipo di esperienza, eppure ci sarà sempre qualcosa di diverso e un po’ inferiore alla prima volta. Qualcuno di voi ha sperimentato questo prima? Sì?
  • Il terzo tipo di sofferenza è quella più importante ed è anche la più difficile da comprendere: è quella che viene chiamata normalmente sofferenza onnipervasiva. Dipende dal fatto che la nostra mente, il nostro corpo, la nostra esistenza, tutte le nostre esperienze, in realtà non sono qualcosa di libero. Noi non abbiamo la libertà nelle nostre manifestazioni. E questo è dovuto dal fatto che all’interno della nostra mente ci sono dei fattori – che noi chiamiamo difetti mentali – che sono la causa delle nostre esperienze di sofferenza. Di questi fattori ce ne sono moltissimi, ma i principali sono la rabbia o l’odio, il desiderio o l’attaccamento, e l’ignoranza. E di questi tre il principale, il peggiore, è proprio l’ignoranza; quest’ignoranza consiste nel fatto che costringe la nostra mente a vedere le cose in una maniera diversa da quella in cui effettivamente sono, a partire dal fatto che siamo completamente erronei nel percepire la nostra stessa esistenza, il nostro stesso io. E così avviene anche per il modo in cui noi vediamo tutte le altre persone: cioè, noi non le vediamo nel modo in cui effettivamente esse esistono. E questo accade anche per tutto quello che riguarda gli oggetti materiali, o gli eventi; tutto quello che esiste noi lo vediamo in una maniera diversa da quella in cui effettivamente esiste. Noi in verità vediamo tutto questo come una realtà molto “aumentata” rispetto a quella che le cose non possiedono. E quindi è proprio sulla base di questa visione errata che noi sviluppiamo rabbia o odio nei confronti di oggetti o di persone che ci sembrano non attraenti o spiacevoli. E nello stesso modo sviluppiamo invece desiderio o attaccamento per oggetti o persone che percepiamo come piacevoli, gradevoli, attraenti. Perciò sulla base proprio di questo stato mentale – che ci porta a generare rabbia, attaccamento, ignoranza – noi agiamo, cioè, poniamo in essere delle azioni con il corpo, la parola e la mente. E queste sono azioni erronee, perché sono motivate dai difetti mentali; queste azioni che noi poniamo in essere, che chiamiamo karma, lasciano delle impronte nella nostra mente, che a loro volta, nel futuro, saranno causa dello sperimentare ulteriore sofferenza. Quindi, le impronte lasciate nella nostra mente da queste azioni sono la causa della nostra rinascita, del fatto che dobbiamo rinascere, e sono anche la causa di tutte le esperienze che noi abbiamo durante il corso della nostra vita; perciò, per il fatto che nasciamo e poi trascorriamo tutta la nostra vita sulla base dell’ignoranza, noi creiamo ancora azioni errate, e, sulla base di queste, di nuovo, le cause per sperimentare nuova sofferenza. Quindi è come se fossimo intrappolati in una situazione in cui, sulla base dei difetti mentali, noi creiamo un karma tale che ci costringerà poi a rinascere, e così via, e questo nel Buddhismo viene chiamato samsara, o esistenza ciclica.

Io trovo molto utile pensare al samsara come a una prigione. In una prigione si possono avere vari tipi di esperienze: ci saranno esperienze veramente orribili, per esempio ci potrebbe essere una guardia particolarmente sadica, cattiva, perversa, o particolarmente accanita nei nostri confronti, oppure un altro prigioniero potrebbe decidere che ci odia, e quindi cercherebbe sempre di combattere con noi, di avere uno scontro. Oppure, per esempio, potremmo fare qualcosa di sbagliato, per cui poi ci metterebbero in cella di isolamento, tagliandoci fuori dal contatto con gli altri per ventiquattro ore al giorno, magari per dei mesi. Possiamo dire che esperienze di questo genere appartengono al primo tipo di sofferenza, cioè alla sofferenza della sofferenza. Ma si potrebbero avere comunque anche delle esperienze piacevoli in prigione perché, per esempio, si potrebbero trovare degli amici, persone con cui si va d’accordo, con cui si passa del tempo insieme, oppure, nel momento in cui persone della famiglia o amici vengono a trovarci, potremmo avere un’esperienza piacevole in quel momento: oppure, ad esempio, una volta ci capita di avere un buon pasto o di vedere un buon film. Ci potrebbero essere anche delle esperienze piacevoli in prigione, e queste quindi apparterrebbero alla categoria della sofferenza del cambiamento, perché sono esperienze piacevoli, ma sono anche destinate a finire.

Piuttosto, il fatto stesso di essere in prigione è come il terzo tipo di sofferenza, perché anche se si possono sperimentare delle esperienze piacevoli, ad esempio quando ci vengono a trovare degli amici o dei familiari, siamo comunque sempre chiusi in questa struttura. Perché non si è veramente liberi di uscire dalla prigione, di uscire dalle mura della prigione, e andare dove ci pare e fare quello che vogliamo; perché la nostra vita e le nostre azioni sono completamente sotto il controllo di altre persone. Forse, quest’analogia ci permette di comprendere il terzo tipo di sofferenza, la sofferenza onnipervasiva, perché a volte abbiamo delle esperienze veramente piacevoli nella nostra vita, ma queste esperienze piacevoli non durano, arrivano a una fine. E se noi guardiamo in maniera realistica alla nostra situazione, possiamo dire che non siamo veramente liberi, non abbiamo veramente il controllo della situazione.

Per esempio, tutti noi vorremmo vivere il più possibile, però forse qualcuno di noi ha controllo su questo tipo di cosa, cioè, può decidere quanto possiamo vivere, o quando e come moriremo? Perché io sono sicura che nessuno vuole morire, ma noi dobbiamo morire. E a prescindere che ci piaccia o no, non abbiamo scelta rispetto a questo fatto dobbiamo comunque morire; così, nello stesso modo, non abbiamo il controllo su tutte quelle azioni e tutti quegli eventi che ci succederanno da qui fino alla fine della nostra vita. E non abbiamo neanche il controllo della nostra mente, perché sono sicura che tutti cerchiamo, cioè, desideriamo di essere felici il più possibile; ma sono sicura che capita molto spesso che ci alziamo la mattina e ci sentiamo assolutamente disgraziati, così infelici; oppure può capitare che ci alziamo la mattina molto contenti, ma poi, durante la giornata, succede qualcosa che, di nuovo, ci fa diventare tristi.

Perciò, questa è semplicemente una spiegazione molto breve della situazione in cui ci troviamo, perché è fondamentale capire la situazione in cui ci troviamo noi e la situazione in cui si trovano gli altri. E quindi avere compassione e, di conseguenza, sviluppare compassione non soltanto per noi stessi, che siamo intrappolati in questa situazione, ma anche per tutti gli altri, tutte le altre persone che sono, allo stesso modo, intrappolate in questa situazione. Per comprendere veramente, in maniera profonda, è necessario rifletterci a lungo, anche fare molta meditazione su quest’argomento, su questi tipi di sofferenza.

Per cui, facciamo in modo che, quando vediamo altri soffrire, quello che sentiamo sia compassione e non pietà, perché nel momento in cui vediamo, ad esempio, un mendicante o un povero, possiamo avere un qualche tipo di comprensione della sua situazione, anziché sentire invece un senso di superiorità, o separazione, da questa persona.

Ad esempio, possiamo pensare: “D’accordo, adesso, in questo specifico momento, quella persona è in quella situazione e io non ci sono, ma questa è qualcosa che potrebbe cambiare in ogni momento, perché potremmo anche noi (potrei anche io) finire in quel modo”. Oppure, per esempio, nel momento in cui sappiamo che qualcuno ha scoperto di avere un tumore, oppure che è morto in un incidente un aereo o sin un attacco terroristico, possiamo pensare: “D’accordo, adesso è toccato a loro ma, un giorno o l’altro, toccherà anche a me”.

Perché un giorno o l’altro tutti noi moriremo, e ogni giorno ci sono migliaia, anzi decine di migliaia di persone che muoiono. Non necessariamente in una maniera così violenta, ma, ad esempio, in ospedale, o nel proprio letto, o dormendo, o semplicemente camminando per la strada ed essere urtati da una macchina. Migliaia di persone muoiono, nel mondo, ogni giorno. E, a un certo punto nel tempo, sarà anche il nostro turno. Comprendendo la situazione nella quale ci troviamo, cioè questo fatto di essere intrappolati nel samsara, il dover ripetere continuamente l’esperienza di sofferenza ci permette anche di poter comprendere che la stessa situazione caratterizza le altre persone; stanno sperimentando esattamente quello che sperimentiamo noi. Per la verità, tutto questo può sembrare qualcosa di estremamente deprimente o pessimistico, ma non è così in realtà, perché c’è una fine a tutto questo. Perché questo è qualcosa che il Buddha stesso ha scoperto nella sua vita e tramite la sua pratica, e ha trascorso la sua vita nell’insegnare queste cose, nel condividerle con gli altri, in modo che potessero essere, appunto, diffuse, cioè, trasmesse ad altre persone; il Buddha ha scoperto che è possibile liberarsi dai difetti mentali, che sono la causa delle nostre sofferenze. Quindi, una volta che riusciamo a eliminare i difetti della nostra mente, che sono ciò che costituisce il karma e che crea il karma, abbiamo la possibilità di raggiungere uno stato in cui si è sempre in pace, in completa pace e beatitudine, una situazione in cui non si sperimenta più nessun tipo di sofferenza, né fisica né mentale. Ciò è possibile per noi stessi e anche per gli altri esseri.

Perciò questo è un qualcosa di cui dobbiamo ricordarci, nel momento in cui appunto riflettiamo sulla sofferenza per non pensare che sia esclusivamente deprimente, senza speranza. Anche perché siamo estremamente fortunati, avendo la possibilità di ascoltare quello che il Buddha ci ha detto riguardo a cosa si può fare per superare questi difetti mentali e con essi questo ciclo. E questa meditazione del Tong-len, questa meditazione del prendere e dare, è una meditazione estremamente potente nel percorso per seguire l’esempio di Buddha. Per la verità, ci sono diversi modi in cui fare il Tong-len: il modo tradizionale è quello di pensare alla sofferenza degli esseri senzienti e di generare compassione nei loro confronti. E con lo stesso sentimento di grande compassione che può caratterizzare la madre nei confronti del figlio, tutte le volte che può essere malato o sofferente, generare il desiderio di togliere questa sofferenza dagli esseri. La seconda parte è quella che prevede la meditazione sull’amore, ossia il desiderio che gli altri possano sperimentare la felicità, e tramite questo sentimento d’amore, pensare di dare tutte quelle che sono le nostre buone qualità, i nostri meriti, la nostra felicità, tutto quello che di positivo noi possiamo avere in modo che questo possa esattamente esaudire e realizzare ciò che le persone desiderano, ciò di cui hanno bisogno. Ma questa meditazione è difficile per alcune persone all’inizio, perché si è spaventati dall’idea di prendere su di sé la sofferenza degli altri. Perciò forse questo è il caso in cui è meglio partire con il familiarizzarsi con il prendere su di sé la propria sofferenza: stasera penso di iniziare questa meditazione pensando di prendere su di sé una propria sofferenza, per cui per iniziare la meditazione vi chiedo di richiamare alla mente quello che può essere un vostro problema, che sia fisico o emotivo, qualcosa che in questo momento vi crei sofferenza. Poi, pensate ad altre persone che possono avere un problema simile o qualcosa del genere: in questo modo diventa più facile sviluppare compassione per queste persone, perché voi sapete esattamente quanto è doloroso avere questo tipo di problema. Quindi generare compassione e il desiderio che queste persone siano libere da quella sofferenza, e l’idea di accettare i problemi di queste persone pensando che in questo modo liberiamo queste persone da questi problemi. Perciò, adesso meditiamo.

Cercate di stare seduti nella maniera più confortevole possibile, cercando di tenere la schiena eretta. Cercate di rilassare il vostro corpo in questa posizione, respirate naturalmente e rilassate la mente mettendo da parte tutti gli altri pensieri; decidete di tenere la mente focalizzata sulla meditazione e su nient’altro. Adesso pensate ad un problema che state sperimentando nella vostra vita: può essere qualcosa di fisico, come una malattia, o qualcosa di emotivo che appartiene alla vostra mente, per esempio un problema in una relazione con un’altra persona, oppure un senso di fallimento per qualcosa che non riusciamo a ottenere, o un senso di perdita per qualcuno che amiamo e che abbiamo perso.

Può darsi che abbiamo una serie di problemi, ma scegliamo uno di questi, quello che rappresenta il problema più grosso nella vostra vita in questo momento. Lasciate che questo problema arrivi alla vostra mente, perché a volte con i problemi facciamo in modo di metterli da parte o di essere così occupati da non avere il tempo di affrontarli. Non cercate di farlo adesso ma, anzi, date il benvenuto a questo problema nella vostra mente, come se vedessimo un bambino che sta piangendo, perché noi andremmo verso questo bambino cercando di confortarlo, cercando di capire perché sta piangendo e quindi gli daremmo attenzione. Trattate questo problema come un bambino che sta piangendo, non cercate di mandarlo via o di ignorarlo, ma dategli il benvenuto nella vostra mente e permettetevi di sperimentare veramente la sofferenza di questo problema. Allo stesso tempo, non fatevi coinvolgere troppo da questo, ricordando che tutte le esperienze, siano esse piacevoli o spiacevoli, non sono permanenti, non durano.

Perché questo è un problema che state sperimentando in questo momento adesso, ma non sarà lì per sempre. Adesso pensiamo che non siamo le sole persone al mondo che hanno questo problema, che ci sono molte altre persone che hanno lo stesso problema o un problema simile, e quindi con la nostra immaginazione pensiamo a queste persone. E se potete, pensate che vi stanno sedute tutte intorno. Cercate di vedere se riuscite veramente a sperimentare la sofferenza che stanno provando, quindi adesso potete capire anche come si sentono gli altri. Cercate dunque di generare un forte sentimento di compassione desiderando che tutte queste persone possano essere libere da questa sofferenza, pensando che potrebbe essere meraviglioso se questo accadesse. E adesso cercate di generare il pensiero e il desiderio di prendere su di voi tutta questa sofferenza e nel fare ciò di liberare le altre persone. Ed esprimete il desiderio e la preghiera che tramite l’accettazione di questi problemi su di noi, possano tutti gli altri esseri essere liberi da questa sofferenza. Ciò che rende particolarmente difficile sviluppare questa compassione per noi è un sentimento di egoismo: nel Buddhismo questa è chiamata l’attitudine di autogratificazione.

Immaginiamo che questa attitudine sia come una pietra pesante e che la sofferenza delle persone che ci stanno sedute intorno le abbandoni sotto forma di fumo nero. A questo punto immaginiamo che questo fumo nero che esce da queste persone entri dentro di noi e arrivi esattamente dov’è posta questa pietra nera pesante della nostra attitudine auto gratificante. E se volete, potete immaginare questo nel momento in cui inspirate: immaginate d’inspirare questo fumo nero e che, nel momento in cui viene assorbito, colpisce questo sasso che opprime il nostro cuore e lo distrugge. Immaginiamo che questa attitudine egoistica venga completamente distrutta e non esista più. Quindi in quello stesso spazio nel nostro cuore adesso c’è aria e pace. Adesso cerchiamo di generare un sentimento di amore per tutte queste persone, augurando loro di essere felici e di ottenere tutto ciò di cui hanno bisogno per essere soddisfatti, felici e in pace.

Generate il pensiero di dare loro tutta la nostra felicità, il nostro benessere, tutti i nostri meriti. E immaginiamo questa energia sotto forma di luce bianca nel nostro cuore e quindi nel momento in cui espiriamo, immaginiamo di espirare questa luce bianca verso tutte le persone che sono sedute intorno a noi e che, nel momento in cui questa le raggiunge, si trasformi in tutto ciò di cui loro hanno bisogno per essere felici: cibo per coloro che sono affamati, denaro per coloro che sono poveri, case per coloro che non ne hanno, lavoro per coloro che ne sono privi, amici amorevoli per coloro che sono soli e coraggio e forza per coloro che sono spaventati o deboli. Usate la vostra immaginazione per pensare tutte le cose di cui queste persone possono aver bisogno perché la loro vita possa essere pacifica e realizzata. E siate convinti del fatto che avete effettivamente dato a queste persone tutto ciò di cui avevano bisogno per essere in pace e per essere contente. E quando sentite di essere pronti per porre termine alla meditazione, lentamente aprite gli occhi e rilassate il vostro corpo, se avete bisogno di cambiare posizione.

Domanda studente: Parlando della differenza fra compassione e pietà, quando c’è qualcuno che ci è molto vicino che sta soffrendo e non è solo un senso di pietà ma di vera compassione, perché senti un’empatia con questa persona e tu soffri per evitare la sofferenza di questa persona, quello che a me succede è che io non sono capace di sopportare questa sofferenza. Quindi è come se mi sentissi attaccata a essa e non sono realmente utile per la persona, perché non posso dare nessun sollievo. Io intendo che non sono capace di ascoltare e che solamente soffro. La mia domanda è come posso essere capace di mantenere una sorta di equilibrio in questi casi?

Risposta: Io credo che queste cose succedono a causa dell’eccessivo attaccamento nei confronti della persona in questione, che è una cosa veramente normale nelle relazioni strette, non c’è modo per cui non possiamo avere questo tipo di attaccamento. E l’attaccamento può divenire un ostacolo nella capacità di aiutare le persone quando hanno dei problemi perché, nel momento in cui si è troppo tristi e depressi per la sofferenza di questa persona, la nostra mente non è nello stato di necessaria chiarezza che ci permette poi di capire che cosa è meglio fare per aiutarlo. Ma è anche molto difficile non avere attaccamento, perché l’unico modo per rimanere completamente privi di attaccamento è realizzare la vacuità, essere privi del sé, per cui questa è una realizzazione molto alta. Però ci sono alcune cose che ci possono permettere quantomeno permettere di diminuire l’attaccamento: per esempio ricordarsi l’impermanenza, che niente è destinato a durare per sempre. Diventare familiare con questo è una cosa che può richiedere tempo, però può permetterci di diminuire l’attaccamento perché familiarizzarsi con l’idea che noi siamo impermanenti, che l’altra persona è impermanente, che le relazioni sono impermanenti, che tutto quello che ci circonda è impermanente, può aiutarci a diminuire l’attaccamento.

Perché con meno attaccamento la nostra mente è più chiara, e quindi possiamo pensare in maniera più razionale a che cosa potrebbe essere d’aiuto alla persona che sta soffrendo. Però io credo che spesso, quando un’altra persona sta soffrendo, è come se facesse da specchio al potenziale di sofferenza che anche noi potremmo sperimentare, quindi se non abbiamo imparato un modo per un modo per metterci in relazione con la nostra sofferenza, la nostra reazione potrebbe essere di paura, di tristezza, e questo è qualcosa che oscura la mente, ci impedisce di essere chiari rispetto alla situazione. Ad esempio, nel caso di una persona che sta morendo, molto spesso i familiari o gli amici che le stanno intorno vedono nella persona che sta morendo il riflesso della loro stessa morte. Questo è un ostacolo alla capacità di essere di aiuto a quella persona.

Ringraziamo i centri FPMT per fornire questo prezioso materiale e tutti i volontari che con il loro lavoro seguono le trascrizioni, le revisioni e la pubblicazione degli insegnamenti sul nostro sito, senza i quali tutto questo non sarebbe possibile.

Se vuoi diventare uno di loro, invia una mail a info@nalandaedizioni.it.

Questo insegnamento è stato dato dalla Ven. Sangye Khadro presso il Centro Ewam di Firenze il 10 ottobre 2001.

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