La scienza della logica si è diffusa rapidamente in India e ai tempi del Buddha era già notevolmente sviluppata e complessa. Fu proprio il Buddha, che aveva rivoluzionato il sapere, a cambiarne il tono trasformando la sua iniziale natura empirica (Vyavaharika-prakti) in un soggetto di conoscenza spirituale (Adhyatma Vidya). Il Buddha non dissertava sul valore assoluto delle sue parole; non riconosceva alle scritture (agama) una validità logica ma incoraggiava il processo di ragionamento e dibattito grazie al quale la verità veniva appresa o conosciuta. Per questa ragione, i suoi seguaci acquisirono una formidabile fiducia in se stessi e svilupparono una indomita capacità di fare affidamento su se stessi. Per questo nei sutra è raro riscontare le parole del Buddha poiché la maggioranza dei cosiddetti “discorsi del Buddha” consistono di argomentazioni dialettiche che hanno luogo tra discepoli eruditi. Chi cerca di trovare delle conclusioni finali rimane deluso poiché il Buddha sottopone argomentazioni che portano solamente a nuove indagini. La sua idea, infatti, era quella condurre i suoi discepoli ad avvalersi di ogni opportunità per sviluppare la propria mente e scoprire la verità in un clima di massima libertà. Ciò ha fatto sì che la logica diventasse un mezzo per la crescita spirituale e non rimanesse confinata allo studio e all’esplorazione del mondo materiale.
Il sistema di logica reso possibile dal Buddha, non era un metodo accettato esclusivamente dai suoi discepoli, piuttosto una raffinata tecnica di dissertazione dialettica. Questo metodo, presentato nel Tripitaka del canone Pali e nei sutra Mahayana, diede una nuova dimensione all’uso del sillogismo e alla scienza del ragionamento.
Potrà sembrare sorprendente a molti che nel Buddhismo delle origini non ci sia traccia di un sistema di logica che si possa definire esclusivamente “buddhista” poiché fu solo dopo morte del Buddha che le argomentazioni che utilizzava nelle sue parabole furono sistematizzate nel metodo utilizzato per le dissertazioni pubbliche. Questa visione è rigettata da alcuni studiosi che ritengono che ai tempi del Buddha esisteva una qualche sorta di manuale per il dibattito, ma tale tesi non è mai stata comprovata. A un certo punto, dopo l’ascesa del Buddha nel Parinirvana, il canone buddhista adottò gli insegnamenti sulla logica enunciati da Gautama. I logici post-Dinanga hanno derivato le tre classi del ragionamento logico dai “discorsi del Buddha”.
Nagarjuna, colui che portò il pensiero Mahayana a diventare una filosofia sostanziale, era dotato di una straordinaria capacità per il dibattito ma lo studio del Madhayamika porta ad affermare che egli non adottò il metodo dialettico del sistema Naiyayika. Anche se alcune sue opere, quali il Vaidalya Sutra, dimostrano che egli era familiare con il sistema Naiyayika, e che molti studiosi ritengono che egli abbia utilizzato molta della terminologia tecnica propria del Naiyayika, nei Madhyamikakarika e in altri trattati non c’è alcuna traccia di testi di logica buddhista preesistenti o contemporanei a Nagarjuna. Ciononostante, è innegabile che un innovativo sistema dialettico era stato sviluppato da studiosi che hanno preceduto Nagarjuna, i quali lo hanno applicato alla loro scienza del ragionamento.
La logica buddhista fu sistematizzata da Dignaga (450-520 d.c.) Per questo, è riconosciuto come il padre del Pramanasatra buddhista e della logica medievale anche se non si possono escludere opere di logica e teorie dei sillogismi preesistenti. Per esempio nei suoi famosi cinque trattati (Byams-chos-sde-inga), Maitreyanatha elabora diversi punti che hanno valenza logica. Inoltre, nella sua opera Saptadasa-Bhumisastra-Yogacara, si trova un capitolo dedicato all’arte del dibattito. Il capitolo è suddiviso in sette sezioni.
- Soggetto del dibattito
- Luogo del dibattito
- Strumenti del dibattito
- Le qualifiche di chi si impegna nel dibattito
- Scopo del dibattito
- Partecipazione al dibattito
- La fiducia in se stesso di chi si impegna nel dibattito
Arya Asanga ha disquisito sull’argomento del Pramana nel suo Bodhisattva-bhumi ma la sua concezione della scienza del ragionamento (hetu-vidya) differisce molto dalla scuola di Dignaga in quanto Asanga aveva accettato la nozione delle cinque suddivisioni del ragionamento che, invece, erano categoricamente confutate da Dignaga. Secondo la tradizione tibetana, Asanga è il primo autore buddhista ad aver lavorato esclusivamente sulla teoria del ragionamento e del sillogismo. Nello stesso periodo, sono apparsi altri due trattati sull’argomento, il Vadavidhi e il Vadavidhana, entrambi attribuiti a Vasubandhu e disponibili solo in una traduzione incompleta in cinese ma ci sono dubbi su questo poiché Dinanga, nel suo Pramana-Samucchaya, afferma che il Vadavidhi non è attribuibile a Vasubandhu.
Dinanga ha effettivamente formulato la logica buddhista in una scienza spirituale completa (Adhyatmavidya) e in una pramana, ovvero una scienza del ragionamento e della corretta conoscenza, spianando la strada per la filosofia e la metafisica buddhista. Lo studio della metodologia dialettica per il dibattito sul ragionamento divenne un efficace metodo di insegnamento al pari del praticare, memorizzare e analizzare il soggetto. Era anche un valido metodo per validare la disamina delle scienze interiori.
Lo sviluppo della logica nel Tibet
In Tibet, la rapida diffusione e la popolarità acquisita dai Pramana-Sastra dei buddhisti deve attribuirsi soprattutto all’opera di venerabili Acharya quali Santaraksita e il suo principale discepolo Kamalsila, entrambi importanti studiosi di Pramana, gli autori dei famosi trattati Pramana Tattva-Samgraha e dei relativi commentari. Anche se questi testi non trattano principalmente di logica, sono comunque considerati opere fondamentali di quella disciplina che i tibetani chiamano Mahapramana (Tsad-chen). Nella seconda metà dell’VII secolo, durante il regno di Thrisrong Detsen (khri srong ide btsan), gli abitanti del Paese delle Nevi ebbero la fortuna di assistere al dibattito pubblico tra Kamalsila e il cinese Hoshang, sull’argomento della Madhayamika. L’impatto di questo evento sulle menti immature dei tibetani deve essere stato considerevole visto che per la prima volta potevano familiarizzarsi con la dottrina del Buddha in modo così ammirevole.
Non è possibile scrivere un resoconto sistematico dello studio della logica in Tibet prima dell’XI secolo, poiché non esistono tracce affidabili della Pramana nel periodo antecedente. La traduzione in tibetano delle opere di Dharmakirti sono state eseguite solo in periodi successivi; il catalogo Denkar elenca solo tre trattati attribuibili a Dignaga.
Durante la prima fase di classificazione e catalogazione delle opere tradotte, effettuate nel palazzo di Denkar, furono considerati solo venticinque titoli che contenevano brevi riferimenti a Dignaga e Dharmakirti. Al tempo, opere comprensive quali il Pramana Samucchaya, il Pramama Vartika e il Pramana Viniscaya non erano ancora state tradotte. La traduzione delle principali opere di Dinanga e Dharmakirti fu completata così tardi che è difficile formulare un’ipotesi sulla sistematizzazione degli studi di Pramana buddhista così come furono introdotti nei programmi didattici dei vari monasteri.
L’opera Il lignaggio dei logici buddhisti, scritta da Gowo Rabjampa Sonam Senge, accenna al fatto che Sakya Pandita avesse ereditato lo studio della logica direttamente da Acharya indiani quali Danasila, Sanghasri e altri.
Recentemente, alcuni studiosi hanno evidenziato che Choekyi Senge, noto anche come Rigpay Wangchug Chapa (1109-1169 d.c.), è stato il primo autore di un’opera indipendente sulla logica. Fintanto che non saranno ritrovate ulteriori prove, possiamo solo fare un cauto affidamento su questa informazione mentre è stato comunemente accettato che i dibattiti dialettici tibetani sono stati sistematizzati da Chapa Choekyi Senge. Non mi posso pronunciare su questo argomento perché non ho avuto modo di leggere una biografia autentica di Chapa Choekyi Senge, tuttavia diversi studiosi hanno fatto riferimento a Chapa Choekyi Senge e a Tsangnagpa, entrambi appartenenti alla tradizione Sakya, come “senge namyi” (seng-ge-rnam-gnyis, due leoni) evidentemente tributando loro grande rispetto. Le loro opere furono seguite dai trattati dell’erudito Kunga Gayltsen Pal Sangpo (Sakya Pandita), il pioniere dello studio della logica in Tibet, la cui opera Tshed-ma rig-ter (tshad ma rig ter, Pramanayuktinidhi) che comprende un testo radice e i suoi commentari, ha riscosso ampio apprezzamento. Si ritiene che quest’opera fu tradotta anche in sanscrito e che fu apprezzata dagli studiosi indiani. Chiunque abbia letto il testo può giustificare l’affermazione di Sakya Pandita “io sono il logico”, riportata nel suo testo “gli otto io” (nga brgyad ma). Egli fu colui che per primo compilò in maniera sistematica tutte le opere di Dignaga e di Dharmakirti
Il valore e l’utilità della logica non può essere negato. Non solo i testi del Veicolo della Perfezione, ma anche quelli del Veicolo del Diamante hanno adottato la terminologia tecnica propria della logica e del sillogismo e le quattro principali scuole filosofiche tibetane hanno inserito la logica nei propri programmi di studio oltre che a produrre numerosi testi sull’argomento.
Di fatto, la nascita della disciplina logica in Tibet dovrebbe essere collocata nel periodo pre- Tzong Khapa, ovvero all’era di Sakya Pandita. Gli studiosi moderni della logica buddhista dividono la storia della logica tibetana in due periodi distinti: l’era antica pre-Tzong Khapa (1357-1419 d.c.) e l’era moderna post-Tzong Khapa. Tzong Khapa stesso non compose trattati di logica ma i suoi principali discepoli, in particolare Gyaltsen Je, Khedrup Je, Gedun Drup e altri si soffermarono a lungo sull’argomento e resero la scuola Ghelupa famosa per i suoi studi di logica. Dato che la Pranamana era già ben radicata nella scuola Sakya, Tzong Khapa ricevette insegnamenti da studiosi appartenenti ad essa quali Redawa Shonnu e Lama Lotsawa Dhunsangpa.
Dall’XI secolo in poi, ci sono stati pochissimi studiosi che non hanno scritto commentari o glossari sulla Pramana Sastra, un elemento ormai indispensabile degli studi buddhisti.
C’è un diffuso fraintendimento che vuole i membri delle scuole Nyingmapa e Kargyudpa non essere interessati allo studio della logica, o addirittura sostenitori della tesi che lo studio di questo soggetto non sia necessario per la realizzazione della verità, ma questo è infondato. Molti studiosi kargyupda si sono cimentati con la Pramana e hanno dato un apprezzabile contributo alla sua crescita. Tra di loro si annoverano il VII Karmapa, Chodag Gyatso, Dagpo Rabjampa, e l’VIII Zhamarpa Kunkhyen Pekarwa, che furono eccellenti logici.
Sakya Juknay e i suoi seguaci diedero grande risalto allo studio della materia. La Pramanasamuccaya e i testi del Pramana Viniscaya erano particolarmente consigliati in questa scuola. Non è certo se Longchen Rabjampa (1308-1363), il principale studioso della scuola Nyingmapa, abbia scritto commentari ai testi di Pramana. L’antologia delle sue opere non contiene testi sulla logica, ma la sua autorità in materia non è messa in discussione. Le sue opere contengono numerose dissertazioni logiche e sequenze di sillogismi che testimoniano la sua padronanza della materia. Essendo stato un brillante studente presso il monastero di Sangpu, una delle sedi più importanti per lo studio della logica nel Tibet, sorprende il fatto che non abbia mai scritto nulla in merito. Di recente, alcuni amici Nyingmapa mi hanno riferito che durante un viaggio attraverso la valle del Kongpo nel 1957 o 1958, il Ven. Polo Khenpo si è imbattuto in un grande commentario alla Pramanavartika attribuito a Longchen Rabjampa. A me la notizia pare attendibile ma, in ogni caso, gli scritti di Lonchen Rabjampa sulla Pramana non sono più rintracciabili.
Ju Mipham ha mantenuto viva la tradizione della Pramana nella scuola Nyingmapa scrivendo il suo dotto commentario alla Pramamavartika. L’esistenza di questo commentario smentisce ogni concezione errata sulla tradizione logica all’interno della scuola Nyingmapa, anche perché le importanti istituzioni monastiche di quella scuola, quali Kathog, Shichen e Palpung hanno inserito lo studio della Pramana nei loro curricula.
Salvo piccole varianti, la Pramana Sastra è stata oggetto di studio da parte di tutte le scuole del Buddhismo tibetano. Per contro, il sistema di dibattito utilizzato dalle scuole Sakyapa e Ghelupa non è molto popolare tra i seguaci delle scuole Kagyudpa e Nyingmapa. Infine, anche la metodologia di indagine sulla validità della conoscenza differisce tra le scuole Sakya-Ghelupa e Nyingmapa-Kargyu.
Questo breve excursus sullo sviluppo dello studio della Pramana Sastra abbinato a una indagine sul sistema di dibattito pubblico impiegato in Tibet farà luce sul ruolo della logica nella dissertazione classica. Questa discussione evidenzierà che, a differenza della scienza logica occidentale che si basa sul ragionamento, la logica buddhista valida la conoscenza (Pramana; Tib. tsad-ma) e la scienza del ragionamento (hetu; tib. rtags) .
La parola “logica” nell’uso comune è indicata come hetu-vidya ma non rappresenta efficacemente il concetto di Pramana. I codici di dibattito dialettico e di dibattito pubblico incorporati nella componente di hetu-vidhya del dibattito Pramana Sastra praticato nei monasteri in Tibet, è un prodotto della “logica applicata” e della scienza del ragionamento.
Lo sviluppo del dibattito pubblico nel contesto buddhista.
La scienza del dibatto pubblico (Sastrartha) e i suoi concili viene nominata nelle Upanishad indicando che tale sistema era già noto in India in tempi antichi. Ai tempi del Buddha i cosiddetti “concili Vada” erano eventi affermati e i dibattiti tra eruditi avevano luogo in un clima di grande spiritualità. Più volte è stato descritto che lo stesso Buddha abbia partecipato a concili con il sangha, dibattendo con i discepoli, esponendo le vere leggi. Nei dibattiti con i brahmini, la sua esposizione logica (tarkik) è così solida da rigettare le loro argomentazioni ed esporre la fallacia dei loro sillogismi.
Con l’evoluzione del Mahayana in India e la sua rapida crescita, la pratica del dibattito divenne una parte indispensabile della vita degli studenti nelle istituzioni monastiche buddhiste nel periodo che va dal 400 al 1200.
Questo sistema contribuì a preservare il sapere nei monasteri affinando le menti degli studenti nel ragionamento e permettendo loro di scrivere commentari ai testi filosofici. Allo stesso tempo, permise di proteggere le loro istituzioni dall’azione di studiosi che venivano da altri luoghi e che, con atteggiamento ostile, cercavano di prevaricare e stabilire la loro supremazia dottrinale. I vari resoconti narrano di epici dibattiti. La vita degli studenti buddhisti è considerata dedicata a tre scopi solenni: 1. Predicare (‘chad pa). 2. Dibattere (rtsod pa) e 3. comporre (tsam pa). Pertanto lo studente deve dedicarsi al proprio sviluppo interiore per la diffusione della vera dottrina. Nei testi buddhisti sono stati stilati regole e codici di condotta che devono essere osservati da tutti gli studiosi impegnati nel campo spirituale e che considerano la crescita della conoscenza e della moralità come elementi essenziali per la purificazione.
L’importanza del dibattito (rtsod pa) è evidente nella triplice formula per un’esistenza significativa di uno studioso buddista e giustifica l’eccellenza del buddhista nel proporre argomentazioni nei dibattiti e nell’enunciare le leggi date dal Buddha; nel modo in cui sono stati mirabilmente esposti nelle Scritture e hanno mostrato la via della liberazione.
Come accennato, il testo di Mitreyanatha sembra essere la prima opera buddhista sull’argomento. Anche Asanga ha trattato il soggetto, in particolare nei suoi famosi trattati sui cinque Bhumi (sa-sde-inga). Egli, così come l’autore dei Vadavidhi e dei Vadavidhana, entrambi appartenenti a una scuola di dibatto antecedente a Dignaga, non ha fondato una sua scuola separata ma è stato incluso nel sistema Naiyayika. Per trovare una ben definita scuola di dialettica buddhista separata dalle esistenti scuole Nyaya bisogna fare riferimento a Dignaga, che ripudiò i 24 argomenti paradossali del sistema Naiyayika.
Successivamente Dignaga negò 22 punti di confutazione logica stabilendo, così, un metodo di dissertazione senza precedenti. Dharmakirti scrisse un trattato conosciuto come Vadanyayanama-prakarana (rTsod pa’l rigs pa) che tratta principalmente del processo dialettico nella dissertazione logica; possiamo considerarlo come una pietra miliare del sistema di dissertazione. In esso troviamo una trattazione completa, comprensiva e ben argomentata del soggetto anche se l’ottenimento della completa familiarità con il suo significato implicito non è privo di difficoltà.
Questa disciplina del dibattito prescrive le qualifiche che devono avere i partecipanti, ma tratta anche degli arbitri che devono essere molto competenti in materia. Si propone di definire il soggetto, le modalità della discussione, l’ordine dei sillogismi così come anche la motivazione per il dibattito e la condotta da osservare durante il suo svolgimento. Sono questi gli elementi che hanno reso il dibattito buddhista unico, distinto da ogni altra forma di discussione. Quando si stabilirono i principi della motivazione e del comportamento, fu sottolineato che il tono del dibattito non dovesse essere tale da generare orgoglio o atteggiamenti saccenti da parte dei partecipanti. Per tale ragione bisogna astenersi da manifestazioni spiritose e di meschina soddisfazione rispettando l’età e il livello di conoscenza dell’opponente e utilizzando un linguaggio consono. Chandrakirti nel suo Madhyamakavatara insegna che l’analisi dei trattati non è finalizzata al dibattito ma all’ottenimento della liberazione (vimukti).
Ci si può chiedere se l’atto di ripudiare le opere di altri non rappresenti un’offesa. La risposta è no. Un esaminatore che non prova attaccamento né per le proprie tesi, né per quelle degli altri, è probabilmente prossimo alla liberazione. Data l’importanza della discussione, i primi eruditi e saggi del Tibet non solo adottarono l’intero sistema di dibattito dialettico buddhista, ai tempi molto in voga tra i Mahavihara dell’Università del Nalanda, Vikramasila e Odantapuri, ma lo svilupparono ulteriormente, a volte adattandolo alla loro particolare metodologia e addirittura aumentandone l’importanza.
Il particolare metodo del dibattito tradizionale tibetano.
Nel Tibet si sviluppò una tradizione che prevedeva di iniziare gli studi filosofici con la logica; a tal scopo fu preparato un manuale di sintesi logica chiamato “bsdus gra” che tutt’oggi non trova corrispettivo in India. In Tibet, lo studio della logica è comunemente accettato come il mezzo per comprendere soggetti oscuri. E’ ammirevole come i primi studiosi del Tibet, dotati di notevole percezione critica, abbiano introdotto questa metodologia logica nella ricerca metafisica. Di particolare rilevanza è anche il lessico e la terminologia tecnica utilizzata nei dibattiti i quali, quando accompagnati dalla gestualità e dall’enfasi vocale, migliorano la capacità comunicativa dei partecipanti.
E’ universalmente riconosciuto che l’ampio utilizzo della gestualità sia stato introdotto da Chapa Choskyi Senge. Prima, sia in India sia in Tibet, il dibattito non prevedeva alcuna componente gestuale. La performance fisica aggiunse colore e divenne fonte di divertimento per gli spettatori. Il battere le mani era molto diffuso nelle discussioni, ma in Tibet tali azioni venivano compiute secondo delle modalità standardizzate. Coloro che sono familiari con la metodologia Sastraha utilizzata nei concili filosofici indiani sa bene che all’apice della discussione, il contendente in preda all’emozione spesso si infervora molto. Un passaggio di Acharya Vadasimha (sMra va’l senghe) citato sa Sakya Pandita nel suo commentario “gli otto io”, recita “Anche se annuncio questa affermazione alzando entrambe le mani, non mi faccio avanti per rifiutarla”.
Il sistema sviluppato da Chapa Choskyi Senge prevede che chi pone il quesito (snga rgol) deve alzarsi e continuare a muoversi, girandosi dopo aver formulato la domanda. Ogni affermazione deve essere seguita da un vigoroso battito di mani che produce un suono forte, articolato ritmicamente battendo con fermezza il piede sinistro a terra. Poi abbassa la mano sinistra e con la destra alza la mala. La mala, che rimane appesa al braccio sinistro, si sposta in alto dal livello della vita fino quasi alla spalla. Ascoltando la risposta il monaco si muove lentamente, con pause. Dopo aver ricevuto una risposta alla sua domanda, è pronto a porre una contro-domanda o una confutazione. Chi confuta è seduto e le sue azioni sono identiche a quelle di chi pone la domanda. Al fine di rappresentare meglio la propria agilità mentale, il monaco impegnato nel dibattito indossa lo scialle superiore (zen) intorno alla vita. Colui che deve rispondere (phyi rgol) siede in terra o su uno scranno e nel momento in cui si appresta a rispondere, indossa il suo cappello.
Nel caso in cui l’interrogante citi alcune scritture o trattati a sostegno della propria posizione, chi risponde si toglie il cappello in segno di riverenza verso il testo citato e il suo autore. Fatta eccezione per alcuni movimenti della mano o delle dita, chi risponde rimane immobile, in rapita attenzione. Man mano che la discussione si infervora, le parti alzano la voce e mentre parlano più rapidamente e diventano più eloquenti, gli spettatori iniziano ad applaudire e a pestare i piedi più rumorosamente.
Per mantenere il processo di domanda e di risposta coerente, si utilizza una terminologia precisa per abbreviare la discussione anche se può sembrare criptica. Bisogna assolutamente evitare di utilizzare un linguaggio ambiguo o i giri di parole. Chi pone la domanda, a ogni frase deve abbinare una di quattro parole specifiche. In questo modo la domanda viene posta in una delle seguenti categorie:
- Conseguenze (thal) – “questo segue quello”
- Fornire una ragione (phyir)- “grazie a..”
- Pretendere una risposta (ste)
- Soggetto (chos can) – “il soggetto”
Le risposte ricevono anch’esse dei suffissi utilizzando una specifica terminologia.
1. Affermazione (dod) – “io accetto questo”
2. Ragionamento sbagliato (rtags ma grub) – “la ragione non è stabilita”
3. la tesi non segue il ragionamento (Khyab pa ma byung) – “non-pervasione”
Richiedere una spiegazione per la tesi formulata (ci’i phyir) – “perché”
Come è ovvio, questo secondo gruppo di termini tecnici, utilizzati nel corso di una risposta, garantisce che la domanda dovrà essere risolta in modo adeguato.
Questo processo di argomentazione consente al dibattito di procedere rapidamente. Iniziando con l’omaggio ad Arya Manjusri, la divinità della saggezza, sotto forma di poche parole pronunciate ad alta voce, “Dhi-ji-tar-chhos-can” (Dhi è il mantra seme della divinità), il dibattito mantiene il pubblico incantato per tutto il tempo.
Nei monasteri il dibattito è praticato, come accennato sopra, dai monaci. Si riuniscono in classi e dibattono insieme in tanti gruppi di interroganti e rispondenti quanti ne consente l’assemblea. A un estraneo può sembrare alquanto incongruo che durante i dibattiti di questa natura i monaci stessi siano a volte concorrenti e a volte giudici. Più spesso, l’intera classe si siede insieme per giudicare la prestazione di chi si cimenta nel dibattito. Talvolta si verificano delle interruzioni a sostegno delle argomentazioni avanzate dall’interrogante e questi è poi costretto a spiegarle più di una volta, stimolando così il dibattito. Questi dibattiti piacciono così tanto agli studiosi che a volte si può vedere l’intera facoltà assistere a un dibattito che, partendo da un modesto tentativo, ha preso una svolta profonda. I dibattiti hanno luogo solitamente alla presenza dell’Abate che esprime verdetti sulle scritture e aiuta nell’esame critico dei problemi metafisici. I concorsi di dibattito sono anche una caratteristica dei simposi accademici nell’organizzazione monastica. Tali contenuti sono chiamati tsog-lang (tshogs lang, stare in assemblea). In tali eventi i concorrenti discutono rimanendo in piedi e si muovono seguendo il flusso della discussione. Diversi collegi monastici (dratsang) inviano i loro concorrenti alle assemblee di monaci delle altre facoltà.
L’importanza e i benefici del dibattito.
Il sistema del dibattito, diventando sempre più popolare nel Tibet, ha contribuito notevolmente a formare lo spessore intellettuale dei monaci, oltre che a dare loro un modo per esprimersi. L’argomentazione ha plasmato la loro eloquenza e ha formato la loro struttura vocale e fisica in un contesto di armonia raramente ottenuto in altri sistemi educativi dove non si pone l’attenzione al coordinamento tra mente, corpo e parola.
I dibattiti sono di beneficio per la salute dei monaci in maniera maggiore di quello che si potrebbe ottenere da una adeguata nutrizione e dalla migliore cura del corpo. E’ dubbio se lo stesso tipo di atteggiamento mentale composto, o equilibrio, possa essere raggiunto con mezzi fisici o artificiali. Durante il dibattito i monaci si mantengono vivi e gioiosi e anche i più giovani e i novizi sembrano deridere la loro miseria o le difficoltà che incontrano nella loro vita. Gli inconsapevoli possono rimanere stupefatti dal vederli sempre sorridenti e a volte rumorosi, anche se senza una ragione apparente, la risata apre i loro cuori e li fa fiorire.
I monaci che hanno imparato e praticato l’arte del dibattito non sono soggetti alle comuni tensioni che affliggono la maggior parte degli uomini nella società moderna. Senza stancarsi intraprendono uno studio vigoroso e intenso, a volte senza pause e vacanze. Durante le ore di discussione nuove informazioni vengono assimilate e affiorano idee innovative. A parte la comprensione comune che si sviluppa attraverso il dibattito, un dibattitore competente può trovare risposte a domande filosofiche profonde. Oltre a questo, le vecchie lezioni vengono riviste e i partecipanti sviluppano un enorme potere di concentrazione. La concentrazione è l’elemento più importante per la pratica meditativa. Un dibattitore esperto è in grado di concentrarsi su un elemento anche nel bel mezzo della confusione e del rumore. La concentrazione permette alla mente di comprendere senza oscurazioni e di formulare opinioni molto chiare e taglienti e si possono contemplare anche i misteri più intricati che non potrebbero essere affrontati diversamente.
Nelle istituzioni monastiche tibetane il metodo del dibattito è utilizzato per diverse tipologie di esami e il fatto che siano stati rilevati molti casi nei quali uno dei candidati ha adottato metodi scorretti per affermare il proprio sapere, ha portato a una richiesta di riformare il sistema. Ma qui si parla di semplice destrezza non di vera conoscenza. Le reali capacità di uno studente, la forza con la quale riesce ad afferrare il significato profondo di una materia, possono essere facilmente valutati appena si alza in piedi e apre la discussione. Anche la capacità di trattenere in memoria contribuisce notevolmente a conferire al candidato il potere della conoscenza e la capacità di esposizione.
Il meccanismo dell’espressione umana ha quattro livelli: fisico, intellettuale, emotivo e spirituale. Non esito a sottoscrivere l’idea che il tradizionale metodo tibetano della disputa dialettica sia la forma più potente di espressione umana in cui i quattro livelli si fondono armoniosamente. Devo ancora scoprire qualche altra forma di espressione o comunicazione simile a questa.
Dubbi
E’ necessario chiarire alcuni dubbi che sono sorti sul metodo sinora descritto. Una delle riserve che viene spesso espressa è che il metodo è futile e che sia solo una manifestazione della complessa mente di un accademico completamente distaccato dalla realizzazione spirituale di quella che è la realtà della vita. Le persone che sposano questa visione sono solite affermare che il dibattito non ha alcun potere nella realizzazione della verità, ma che piuttosto sia un impedimento alla meditazione e alla crescita spirituale. Questa nozione non è nuova ed era già presente in passato. Per rigettare questa idea, Dharmakirti scrisse il suo manuale di dibattito (Vadanyana-prakarana) nella cui introduzione si legge: “per sradicare l’ignoranza che previene la realizzazione della verità da parte delle persone ordinarie, io ho preparato questo manuale sul dibattito dialettico a noi trasmesso dagli antichi maestri per il beneficio egli esseri senzienti”.
Kamalasila ebbe una discussione pubblica in Tibet con il maestro cinese Hoshang. Hoshang asseriva che durante la meditazione non ci dovesse essere alcuna concettualizzazione e che ogni pensiero doveva essere allontanato; che la realizzazione istantanea della verità era ottenibile attraverso il vuoto e che la forma più elevata di meditazione era quella di eliminare la risposta della mente agli oggetti esteriori. Kamalasila rifiutò tale tesi proponendo l’acquisizione della saggezza attraverso l’analisi e l’argomentazione interiore. Questo punto sottolinea l‘importanza del sillogismo nella comprensione della verità. Kamalasila scrisse tre straordinari trattati – i tre stadi della meditazione (sgom rim-gsum) – per approfondire questo metodo. Essi rappresentano uno straordinario contributo agli studi Mahayana e ora li andrò a riassumere per coloro che ne sono interessati.
L’obiettivo ultimo di un praticante Mahayana è la realizzazione della buddhità. La natura di buddha è inseparabile dalla saggezza trascendente (shes rab) e dalla compassione trascendente (rnying rje chen po). La saggezza trascendente è l’elemento più importante e si sviluppa dalla combinazione della pratica di calmo dimorare (samatha) e meticolosa analisi meditativa (lhag mthong). Una mente priva di samatha è impossibilitata a evolversi oltre la dimensione mondana (jig rten pai gnas) e senza vipasayana non può realizzare la verità ultima perché senza vipasayana non si può sradicare l’ignoranza. È questo fattore che fa sì che il processo della meditazione buddhista sia sempre accompagnato dalla concentrazione, e l’analisi profonda lo affina per la comprensione della verità. Lo scopo della meditazione è la realizzazione della verità e l’introspezione è essenziale quanto lo è samatha.
Nel discutere questo aspetto delle fasi della realizzazione della verità in cui la concentrazione e l’analisi approfondita costituiscono la norma, vengono rigorosamente delineate le seguenti fasi per la sua fruizione. Il primo stadio è l’ascolto (thos pa), il secondo stadio è il pensiero (bsampa) e il terzo stadio è la meditazione (sgom pa). Queste sono fasi naturali di sviluppo che non possono essere invertite o riarrangiate. Questo schema è ampiamente accettabile per tutti i seguaci del Buddhismo e anche per molti altri sistemi di pensiero filosofico indiano. Si dovrebbe quindi rendersi conto che la mente deve attraversare le fasi dell’ascolto, del pensiero e della meditazione, un metodo sequenziale di approccio al dibattito. Ciò spiega anche come la buddhità non sia di natura passiva, ma una forma attiva della mente. Il dibattito dialettico non è riservato ai soli accademici, ma è un fattore indispensabile sul sentiero del progresso spirituale.
La seconda obiezione degli studiosi che vedono il metodo del dibattito come oscuramento della verità mediante supposizioni può essere confutata facilmente quando si sa che, tranne che negli stadi più alti del sentiero (dal Sentiero della Visione in poi, darsana-marga), dove la verità è percepita direttamente, non c’è modo di evitare il pensiero durante la meditazione. Il praticante sa bene che la contemplazione, la concentrazione evitando il pensiero discorsivo e il vigilare sulla mente permangono ancora nella sfera del pensiero quando la mente sta ancora progredendo verso la liberazione dalle illusioni distruttive.
La realizzazione
Quando penso all’ego, realizzo il samsara.
Quando penso al samsara, realizzo la sofferenza
Quando penso alla sofferenza, realizzo il desiderio
Quando penso al desiderio, realizzo l’ignoranza
Quando penso all’ignoranza, realizzo la saggezza
Quando penso alla saggezza, realizzo il vero sentiero
Quando penso al vero sentiero, realizzo la liberazione
Quando penso al buddhadharma, sono riconoscente al Buddha e prendo i Tre Rifugi.
Tratto da Tibetan Debate, a Dialectic Process of Disputation, di S.E. Prof. Samdhong Rinpoce. Traduzione a cura di Ivano Colombo.