Nel suo libro “Hidden Dimensions”, “Le Dimensioni Nascoste”, Alan Wallace colma il divario fra il mondo della scienza ed il reame spirituale. La teoria della relatività ontologica di Alan Wallace suggerisce che i fenomeni mentali non emergono dal cervello. Piuttosto, essi sorgono da una dimensione della realtà che è più profonda della biforcazione fra mente e materia.
Domanda: Cos’è la coscienza? Può darci un significato base dei vari modi di come viene compresa questa concezione da parte degli scienziati e buddhisti?
Un primario punto di forza della scienza è la sua gamma di metodi empirici per misurare oggettivamente fenomeni fisici e quantificabili per poi sottoporre questi dati misurati all’analisi quantitativa. La coscienza invece è soggettiva, non manifesta caratteristiche fisiche ed è qualitativa e non quantitativa.
È quindi invisibile a tutti i metodi oggettivi di misurazione e sfugge l’analisi quantitativa. Per questi motivi, gli scienziati non hanno ancora raggiunto un consenso circa la natura della coscienza; non dispongono di nessun mezzo per rilevarla oggettivamente, e devono ancora identificare le sue condizioni necessarie e sufficienti.
Al contrario, un primario punto di forza del Buddhismo è la sua gamma di metodi diretti di osservazione di processi e stati mentali e ciò comprende gli stati sottili di coscienza che sono sperimentalmente accessibili solo da chi ha ottenuto livelli avanzati di samadhi o attenzione altamente focalizzata.
C’è un’estesa concordanza fra i contemplativi buddhisti che la coscienza ha due caratteristiche uniche: luminosità e cognizione. “Luminosità” si riferisce alla qualità della coscienza di illuminare tutti i tipi di apparenze, sia fisiche che mentali.
È solo perché c’è la coscienza che il mondo è permeato di colori, suoni, odori, sapori e qualità tattili. Ed è la sola coscienza che rende manifesti i nostri pensieri, emozioni, sogni e tutte le altre esperienze soggettive. “Cognizione” si riferisce alla qualità del conoscere: non solo le apparenze diventano manifeste alla coscienza ma esse vengono anche conosciute. Le sfumature multiple di un tramonto appaiono alla coscienza visiva e vengono anche conosciute dalla coscienza. Queste due qualità sono uniche alla coscienza e un mondo senza coscienza sarebbe vuoto di apparenze e conoscenza.
Quali sono le basi per credere che la mente sia fisica?
Nel 1847, Hermann von Helmholtz presentò un modello matematico relativo al principio della conservazione dell’energia e le generazioni di fisici a seguire l’hanno riguardato come chiave per la comprensione della natura come totalità. Questo principio costituisce la base per il cosiddetto “principio di chiusura”, che afferma che solamente fenomeni fisici possono essere influenzati o possono influire esclusivamente all’interno dell’universo fisico. Il cervello, ovviamente, influisce sulla mente e c’è una crescente evidenza che la mente influisce sul cervello e ciò procura ragioni sufficienti per la maggior parte degli scienziati cognitivi per credere che la menta debba essere fisica. Qualsiasi alternativa, credono, conduca all’antiquato dualismo cartesiano o ad altri modi di pensare, non-scientifici e “magici”.
Tante persone che adottano questa visione pensano che la categoria “fisico” sia semplice e facile e difatti è stato così per quasi tutto il Novecento. Ma da allora, i progressi della fisica hanno reso sempre più difficile determinare a cosa si riferisse “fisico”. Un tipo di definizione operativa è: qualsiasi cosa che può essere misurata con gli strumenti dei fisici, oppure ciò che può essere definito dal linguaggio e dai concetti applicati dai fisici. Sorge un problema però: nessuno stato soggettivo ed esperito o processo mentale può essere misurato con gli strumenti dei fisici, né essere definito con il linguaggio e concetti dei fisici. In aggiunta, quando esperiamo direttamente stati e processi mentali essi non mostrano qualità fisiche come estensione spaziale, massa o velocità.
Il principio del Rasoio di Occam sostiene: “A parità di fattori, la spiegazione più semplice è da preferire”. Io credo che sia giunto il momento di applicare questo principio di parsimonia alla visione scientifica della mente e semplicemente prendere atto di non sapere se la mente e coscienza siano fisiche o no. Perché, dopo tutto, dovremmo credere che l’universo possa accomodarsi comodamente nella categoria concettuale umana – il fisico – il quale è stato sottoposto a tanti variazioni di definizione attraverso tutta la storia della scienza moderna?
Quali sono le condizioni necessari e sufficienti per la comparsa della coscienza?
I neuroscienziati stanno scoprendo sempre più correlazioni neuronali a tipi specifici di coscienza come la percezione visiva, ricordi coscienti ecc. Sappiamo per esempio che nell’essere umano una corteccia visiva ben funzionante è necessaria per generare la consapevolezza visiva. L’occhio, il nervo ottico e la corteccia visiva sono tutte cause necessarie per la percezione visiva dell’essere umano. Ma nessuno sa cosa ci sia nelle configurazioni neuronali nella corteccia visiva che la abiliti per generare o persino influenzare la percezione visiva.
Non conosciamo tutte le condizioni sufficienti per qualsiasi tipo di coscienza. In aggiunta, i ricercatori nei campi dell’intelligenza artificiale e robotica sono intenzionati allo sviluppo di computer e robot coscienti e immaginano che processi non-organici possano procurare le condizioni necessarie e sufficienti per una coscienza. Non è sicuro che la corteccia visiva sia necessaria per una coscienza visiva; nessun scienziato può dire con certezza quali siano le cause necessarie e sufficienti per qualsiasi tipo di coscienza.
Un numero di fisici eminenti, compresi Wolfgang Pauli, David Bohm e Roger Penrose, come pure psicologi come William James e Carl G. Jung, proposero che il mondo della mente e materia sorge da un’altra dimensione di realtà la quale esiste a priori di tale distinzione. C’è questa visione nel Buddhismo, e se sì, come viene sottoposta all’esperienza questa ipotesi?
I Buddhisti sostengono che il mondo fisico così come lo conosciamo sorge da una dimensione più sottile dell’esistenza, conosciuto come “reame della forma”. Mentre l’universo concepito dalla scienza è suddiviso nelle categorie mente e materia, il reame della forma trascende queste grossolane categorie. È composto da forme archetipiche corrispondenti agli elementi di base dell’esperienza fisica – terra (solidità), acqua (fluidità), fuoco (calore) e aria (motilità) – come pure da dimensioni sottili di coscienza che possono essere conosciuti solo attraverso lo sviluppo di una coscienza altamente concentrata e focalizzata conosciuta come samadhi.
John Wheeler propose che l’universo esiste come un “circuito auto-eccitato” in cui gli osservatori giocano un ruolo attivo nel generare i loro mondi. Come si relazione questa ipotesi con la visione buddhista della vacuità e sorgere dipendente?
La visione della Via di Mezzo del Buddhismo dichiara che tutti gli oggetti osservati esistono solo relativi al modo di osservazione con il quale essi vengono rilevati e tutti gli oggetti teorici esistono solo relativi al contesto concettuale nel quale essi vengono concepiti.
È impossibile conoscere qualunque cosa indipendentemente dai mezzi con i quali essa viene conosciuta.
Perciò non ha nessun senso parlare di un mondo oggettivo esistente indipendentemente da qualsiasi modo di indagine.
Questi principi sono largamente compatibili con la teoria di Wheeler dell’osservatore-partecipante e riflettono anche da vicino le visioni di Stephen Hawking e Anton Zeilinger; tutti loro propongono l’applicazione delle scoperte della fisica quantistica all’universo nel complesso. Ciò suggerisce che siamo co-creatori dell’universo come lo esperiamo e come lo concepiamo. L’universo non è “dato in precedenza” aspettando che gli scienziati scoprano la sua “vera natura”. Piuttosto, fra una gamma di infinite possibilità, sulla base dei loro sistemi di misurazione e contesti concettuali, gli scienziati scelgono il mondo in cui abitano e lo stesso è vero per tutti, compresi i buddhisti.
I fisici dell’area della cosmologia quantistica parlano del problema del “tempo congelato”, problema che sorge se si applica la teoria quantistica al principio di relatività generale di Einstein utilizzando una procedura chiamata quantificazione canonica. Ciò indica che l’universo senza la presenza di un osservatore dovrebbe essere congelato nel tempo, senza mai cambiare. Sorge la domanda: perché vediamo l’universo evolversi in un dato modo? C’è una siffatta nozione nel Buddhismo e, se sì, come si rapporta alla pratica buddhista?
Gli scienziati vedono l’universo evolversi in un certo modo, in funzione delle domande che si sono posti nei 400 anni da Copernico, i metodi di osservazione e sperimentazione che hanno impiegato e i tipi di concetto che hanno applicato per rendere intelligibili i loro dati empirici. Come suggeriscono John Wheeler e, più recentemente, Stephen Hawking, gli scienziati scelgono la storia dell’universo sulla base dei loro metodi soggettivi di indagine.
L’universo non era già lì fuori, passivamente, pronto per essere compreso da loro.
Allo stesso modo, in accordo alle tradizioni della Via di Mezzo e Grande Perfezione del Buddhismo Tibetano il mondo fenomenologico sorge ad incontrarci in relazione ai modi con cui lo percepiamo e concepiamo. Tuttavia, è anche possibile sondare la dimensione più profonda di consapevolezza conosciuta come “coscienza primordiale” la quale trascende spazio e tempo. Questa coscienza primordiale si dice associata al “quarto tempo”, il quale trascende ma racchiude in sé i tre tempi di passato, presente e futuro.
Come potrebbero collaborare la scienza ed il Buddhismo nello studio della coscienza?
Per quanto concerne lo studio della mente, i punti di forza della scienza sono i loro metodi per acquisire dati quantitativi, l’esplorazione indiretta della mente mediante lo studio del comportamento e delle attività cerebrali. Tuttavia, le scienze cognitive non hanno mai ideato mezzi sofisticati per l’osservazione diretta degli stati di coscienza.
Ed è questo il punto di forza del Buddhismo e di altre tradizioni contemplative. Integrando questi punti di forza, potremmo far avverare la visione di William James, il quale propose sì lo studio della mente mediante il comportamento e le funzioni cerebrali, ma soprattutto mettere il focus primario sull’introspezione.
Quali potrebbero essere i benefici dai risultati di una collaborazione del genere?
Fino a quando lo studio scientifico della mente rimarrà confinato nell’esame del comportamento e delle correlazioni neuronali, la comprensione scientifica della mente rimarrà necessariamente materialistica. In più, fino a quando questi studi resteranno confinati alle menti delle persone normali, agli ammalati di mente e a chi ha subito lesioni cerebrali, l’immaginazione scientifica riguardo al potenziale della coscienza umana rimarrà molto limitata. Il Buddhismo ha sviluppato mezzi sofisticati per l’esplorazione diretta di un’ampia gamma di stati e processi mentali e comprende inoltre lo sviluppo e lo studio di stati altamente avanzati della coscienza in termini di attenzione altamente focalizzata, compassione e saggezza.
Tuttavia, i benefici di questa indagine e pratica personale sono rimasti largamente aneddotici all’interno della tradizione buddhista. Collaborando con gli scienziati, i buddhisti potranno ottenere una comprensione più chiara dei benefici e dei limiti nelle loro teorie e pratiche. E tutto ciò potrebbe portare a mezzi più efficaci per l’era moderna volti alla trasformazione della mente e alla scoperta delle piene potenzialità.
B. Alan Wallace
B. Alan Wallace ha insegnato meditazione e filosofia Buddhista in tutto il mondo dal 1976 e ha servito, come interprete, numerosi eruditi e contemplativi tibetani, tra i quali Sua Santità il XIV Dalai Lama. Dopo aver conseguito la laurea in Fisica e Filosofia della Scienza all’Amherst College nel 1987, ha proseguito il suo percorso di ricerca ottenendo nel 1995 il Ph.D. in studi religiosi alla Stanford University.
È il fondatore e il presidente del Santa Barbara Institute for Consciousness Studies e il presidente del consiglio di amministrazione del Thanyapura Mind Centre a Phuket in Thailandia. Ha revisionato, tradotto, scritto e contribuito alla realizzazione di più di quaranta libri sul Buddhismo tibetano, la sua medicina, lingua e cultura e sul rapporto tra scienza e Buddhismo.
Questa intervista è © Columbia University Press