Mandare giù pillole per la depressione

Mandare giù pillole per la depressione

Una Visione Buddhista di B. Alan Wallace

L’Organizzazione mondiale della sanità rileva che i disturbi mentali sono in aumento. Prevede anche che una persona su quattro svilupperà uno o più disturbi mentali durante la propria vita. Entro il 2020, si prevede che la depressione sarà la maggiore causa di malattia nel mondo sviluppato. Mandar giù pillole è spesso il rimedio più consigliato e più semplice per contrastare la depressione, ma è una soluzione davvero efficace?

L’intero insegnamento del Buddha deriva dalla compassione, dal desiderio che tutti gli esseri senzienti possano essere liberi dalla sofferenza e dalle sue cause. Nel mondo di oggi, uno dei tipi di sofferenza più oppressivi e debilitanti è la depressione. Molto più che fugaci esperienze di tristezza, il disturbo mentale diagnosticato clinicamente, noto come depressione maggiore, è disabilitante. Esso infatti interferisce con la nostra capacità di lavorare, dormire, studiare, mangiare e godere di attività che un tempo trovavamo piacevoli.

Per trattare la depressione in modo efficace, dobbiamo identificare le cause e le circostanze specifiche che contribuiscono ai singoli casi.

In caso contrario, c’è il pericolo che possiamo trattare ciecamente i suoi sintomi senza affrontare le cause sottostanti. Secondo studi recenti, sembra altamente improbabile che la depressione derivi esclusivamente da squilibri chimici, tranne in rari casi di carenze vitaminiche, ictus e così via. Inoltre, una sintesi di centinaia di studi indica che gli antidepressivi non sono più efficaci nel trattamento della depressione derivante da queste cause che nel trattamento della depressione derivante da cause legate allo stress. Ciò implica che la depressione è meglio compresa come un disturbo mentale, non neurologico.

Trovo utile tracciare una distinzione tra questi due tipi di disturbi. I disturbi neurologici, come l’autismo, derivano principalmente da fattori biologici oggettivi, che a loro volta influenzano l’esperienza soggettiva. I disturbi mentali derivano principalmente da processi mentali soggettivi, che a loro volta influenzano il cervello. La mia ipotesi di fondo qui è che la mente e il cervello siano causalmente correlati pur non essendo identici. Le prove suggeriscono che la depressione è meglio compresa come un disturbo mentale, quindi si potranno trovare cure efficaci esaminando le sue principali cause psicologiche.

Il centro del Bhavachakra:
attaccamento: gallo
avversione: serpente
ignoranza: cinghiale

La nostra conoscenza sul cervello cresce velocemente, eppure non ha portato un corrispondente progresso nello sviluppo di farmaci per il trattamento delle malattie mentali. Questo modo di distinguere tra disturbi mentali e neurologici aiuta a spiegare il perché.

Per la psicologia buddhista, la depressione maggiore non è di per sé considerata una “afflizione mentale” (klesa)

Piuttosto, la depressione è un sintomo delle afflizioni di attaccamento, avversione e ignoranza.

Tutte le afflizioni mentali sono caratterizzate dalla loro qualità di interrompere l’equilibrio della mente. Questo genera un conseguente comportamento non salutare, che a sua volta dà origine a sofferenza per noi stessi e per gli altri. La pratica buddhista comprende la coltivazione dell’etica, del samadhi e della saggezza e ha lo scopo di porre rimedio a queste vere cause della miseria umana.

Se cerchiamo i processi psicologici afflittivi all’interno del contesto buddhista che possono provocare depressione, potremmo scoprire che i cosiddetti Cinque Ostacoli, o “oscurazioni”, giocano un ruolo cruciale. Questi includono:

  1. desiderio e attaccamento ai piaceri edonistici, compresi quelli legati alla ricchezza, al potere e alla fama (che provocano frustrazione e ansia croniche)
  2. malevolenza e risentimento
  3. deficit di attenzione e ottusità
  4. iperattività dell’attenzione e senso di colpa
  5. debilitante incertezza

Il Buddha dichiarò che:

“Finché questi cinque oscurazioni non vengono abbandonate, uno si considera indebitato, malato, legato, schiavo e perso in un sentiero nel deserto”

(Sāmaññaphala Sutta)

Questa è chiaramente una descrizione di una malattia mentale e implica una caratteristica fondamentale e distintiva della visione del mondo buddhista. Vale a dire che la mente di una persona incline a tutte le oscurazioni di cui sopra può essere normale, ma non è sana.

La depressione che deriva da una qualsiasi di queste oscurazioni viene lenita indirettamente con la coltivazione della disciplina etica.

Questa disciplina si basa sulla non violenza e sulla benevolenza, e direttamente si calma con il samadhi, o attenzione focalizzata. L’addestramento al samadhi coinvolge la coltivazione della consapevolezza e dell’introspezione. Per questo si impara a superare la tendenza abituale alla ruminazione negativa e a sviluppare un senso di agio fisico e mentale, insieme a migliorare la stabilità e la chiarezza dell’attenzione. L’efficacia curativa di tale pratica meditativa è ulteriormente aumentata con la coltivazione delle virtù sublimi dell’amorevole gentilezza, della compassione, della gioia empatica e dell’equanimità.

L’ignoranza sta alla radice delle afflizioni mentali del desiderio e dell’avversione, ed è di due tipi: innata e acquisita. Le forme innate di ignoranza includono:

  • i pregiudizi cognitivi del vedere ciò che é impermanente come permanente;
  • lo scambiare le vere fonti di sofferenza e di genuina felicità;
  • la falsa reificazione di fenomeni interiori ed esteriori come “io” e “mio”.

Quindi, sulla base dell’eccezionale equilibrio mentale raggiunto attraverso la pratica del samadhi, uno può effettivamente avventurarsi nella pratica della meditazione analitica. Questa si traduce nella saggezza liberatrice di realizzare la natura dell’impermanenza, della sofferenza e del non-sé. Tale saggezza funge da antidoto diretto alla depressione guarendo le sue cause fondamentali che fraintendono la natura della realtà.

È importante non confondere il disturbo mentale della depressione con la tristezza e la disillusione che derivano dall’approfondimento della comprensione della natura della realtà.

Tale infelicità può essere suscitata, ad esempio, da un personale senso di disincanto per l’insoddisfacente ricerca del piacere edonistico. Oppure, da una schiacciante simpatia per la sofferenza e la miseria degli altri, accompagnata da un senso di impotenza nell’alleviare il loro dolore.

Tale tristezza può servire come elemento chiave per trovare uno stile di vita più autentico, altruistico e appagante, nonché modi più efficaci per essere al servizio degli altri. La meditazione può infatti suscitare un tale sgomento basato sulla realtà. La pratica buddhista a tutto tondo può portare ad un cambiamento significativo nella propria visione del mondo, nei valori e nello stile di vita, che consente di superare tale infelicità alla radice.

EEG

Nel corso della nostra vita possiamo combinare le nostre tendenze innate all’ignoranza, a mal comprendere la realtà, assieme a tipi di ignoranza che raccogliamo dal nostro ambiente culturale e dalla nostra educazione. A mio avviso, il materialismo scientifico è una sorta di ignoranza acquisita che domina l’educazione moderna, l’indagine scientifica e i mezzi di informazione popolari. Questa è la visione che l’intera realtà non consista in altro che massa-energia, spazio-tempo e le loro proprietà derivate. I materialisti credono anche, comunemente, che solo i processi fisici abbiano efficacia causale, il che implica che le uniche influenze sul cervello siano quelle fisiche. Questa convinzione ignora l’efficacia causale di informazioni significative, che non possono essere misurate da macchine, incapaci di pensiero. Al contrario, possono essere rilevate da un’intelligenza soggettiva e cosciente.

Gli unici tipi di fenomeni naturali che gli scienziati possono misurare con i loro strumenti tecnologici sono oggettivi, fisici e quantificabili.

Tuttavia i processi mentali, contrariamente alle loro espressioni comportamentali e ai correlati neurali, sono soggettivi, non hanno attributi fisici e sono qualitativi. Quindi sono invisibili ai metodi scientifici di misurazione. I materialisti quindi equiparano ciò che non possono misurare – l’esperienza soggettiva – con ciò che possono misurare. Ciò implica una sorta di “metodolatria” in base alla quale si presume che i metodi di indagine della scienza in terza persona costituiscano “l’unico vero percorso” per comprendere il mondo naturale, a scapito delle intuizioni e delle scoperte che possono essere fatte attraverso l’introspezione in prima persona e con la ricerca contemplativa. Quindi io rifiuto sia questo approccio esclusionista nei confronti della comprensione della natura, sia le sue conclusioni riduzioniste, perché non sono convalidate da prove empiriche o da argomentazioni logiche.

Tomografia

I materialisti comunemente identificano le persone con il loro cervello, il quale opera secondo le leggi al di fuori della morale e al di fuori del senso della fisica e della chimica. Molte persone, me compreso, trovano questa convinzione non solo infondata e senza prove empiriche, ma anche disumanizzante, impotente e demoralizzante. L’indottrinamento con questo sistema di credenze, specialmente quando viene presentato come parte integrante di qualsiasi visione scientifica del mondo, può essere di per sé una delle principali cause indirette di depressione nel mondo moderno. È fondamentale notare che molti scienziati non aderiscono ai principi metafisici del materialismo.

Ciò implica chiaramente che questa non è una caratteristica necessaria del pensiero scientifico.

Ma ci sono molti ricercatori nel campo della salute mentale che considerano tutti i disturbi mentali semplicemente come disturbi cerebrali, il che implica che il modo principale per trattarli è con farmaci o altri interventi fisici.

Nel “mondo sviluppato”, dove il materialismo è più influente, le persone stanno prendendo più pillole che mai. Al momento negli Stati Uniti un adulto su cinque prende almeno un psicofarmaco. Nel frattempo, l’industria farmaceutica spende miliardi di dollari per aumentare le proprie vendite facendo pubblicità direttamente al pubblico, oltre al marketing rivolto ai professionisti della salute mentale. I suoi sforzi sono stati ripagati. Nel decennio dal 1996 al 2005, il numero di americani che assumono antidepressivi è raddoppiato (da 13,3 milioni a 27 milioni). Inoltre, nel 2008 le vendite di antidepressivi hanno raggiunto l’incredibile cifra di 9,6 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti.

Milioni di persone sono chiaramente alla disperata ricerca di sollievo dalla miseria.

C’è un alto prezzo da pagare per questa dipendenza a lungo termine dalle droghe. Al di là dell’ovvio onere monetario, tali farmaci trattano solo i sintomi di quasi tutti i casi di depressione, con conseguente dipendenza prolungata dalla droga, con la sua vasta gamma di possibili effetti collaterali negativi. Mentre l’industria farmaceutica afferma che gli antidepressivi aiutano circa il 75% di coloro che li assumono, il fallimento di tali farmaci per il restante 25% può effettivamente portare a ulteriore disperazione, poiché le persone tendono di conseguenza a credere di essere irreversibilmente danneggiate neurologicamente.

Scientificamente, è fondamentale determinare se i benefici per la maggioranza del settantacinque per cento derivano veramente dalla terapia farmacologica o dall’effetto placebo. Secondo uno studio pubblicato nel 2002 sull’American Journal of Psychiatry, fino al settantacinque per cento dell’efficacia attribuita agli antidepressivi è in realtà dovuta all’effetto placebo, che è un termine improprio per l’efficacia della risposta soggettiva e cosciente a informazioni significative. Altri studi dimostrano che peggiori sono gli effetti collaterali, più forte è l’effetto placebo. I pazienti si convincono che il farmaco che stanno assumendo è così forte da renderli nauseati e impotenti, quindi concludono erroneamente che esso debba essere abbastanza forte da alleviare la loro depressione. Inoltre, le persone che assumono un antidepressivo hanno maggiori probabilità di ricadute quando l’antidepressivo viene interrotto, a differenza dei pazienti che si riprendono con un placebo e poi il placebo viene sospeso.

Una ricerca storica pubblicata nel Journal of the American Medical Association nel 2010 indica che i benefici degli antidepressivi sono “da inesistenti a trascurabili” nei pazienti con depressione lieve, moderata e persino grave e che dosi elevate di antidepressivi sono difficilmente più efficaci di quelle basse. Solo nei pazienti con sintomi molto gravi (circa il tredici per cento delle persone con depressione) c’era un beneficio del farmaco statisticamente significativo. Di conseguenza, le vendite mondiali di antidepressivi, che hanno raggiunto il picco di 15 miliardi di dollari nel 2003, dovrebbero ora scendere a 6 miliardi di dollari entro il 2016.

Mentre gli scienziati cognitivi sono giunti a riconoscere che i processi mentali soggettivi svolgono un ruolo significativo nell’indurre la depressione, l’indagine scientifica sulle cause e sui trattamenti della depressione, sotto l’influenza pervasiva di credenze e metodologie materialiste, si è finora concentrata principalmente sui fattori fisici. Nel frattempo, i neuroscienziati esprimono perplessità sul fatto che, nonostante la loro conoscenza del cervello sia in rapida crescita, hanno fatto pochi progressi nello sviluppo di farmaci per sopprimere i sintomi, per non parlare della guarigione, dalle malattie mentali, che i materialisti insistono non siano altro che disturbi cerebrali. Questa è l’inevitabile conclusione del motto riduzionista, “la mente è ciò che fa il cervello”. Sarebbe affascinante vedere una ricerca scientifica imparziale condotta sugli effetti del riduzionismo materialistico sulla depressione e gli altri disturbi mentali.

In sintesi, l’incapacità di identificare e trattare le vere cause della depressione ha portato a un’eccessiva dipendenza dai farmaci, sottostimando i metodi che la curano alla fonte.

I farmaci svolgono un ruolo importante nell’aiutare a gestire i sintomi della malattia mentale, inclusi i disturbi d’ansia, il disturbo da deficit di attenzione, iperattività e la depressione. Ad esempio, nei casi di depressione molto grave, gli antidepressivi aiutano a ripristinare un sufficiente equilibrio emotivo in modo che le persone possano beneficiare di altre forme di trattamento come la terapia cognitivo-comportamentale basata sulla consapevolezza. I disturbi mentali, come li ho definiti io, in contrasto con i disturbi neurologici, sono principalmente causati da fattori soggettivi (psicologici) piuttosto che oggettivi (biologici). Per questo dobbiamo rivolgerci all’esperienza in prima persona per identificare le loro vere cause.

C’è una meravigliosa complementarità tra le rigorose metodologie in terza persona della scienza moderna e le rigorose metodologie in prima persona del Buddhismo e altre tradizioni contemplative. Per la prima volta nella storia umana abbiamo accesso immediato a entrambi i sistemi di indagine. Entrambi con i propri punti di forza e i propri limiti. Data la realtà della sofferenza e delle sue fonti, e l’urgente bisogno dell’umanità di trovare sollievo dai disturbi mentali, è imperativo mettere da parte i pregiudizi ideologici e metodologici, sia scientifici che religiosi. Ora abbiamo l’opportunità di integrare metodi di indagine contemplativi e scientifici. In questo modo possiamo fornire una comprensione completa dell’esistenza umana. Una comprensione che abbracci pienamente sia gli aspetti soggettivi che quelli oggettivi del mondo naturale, senza ridurre l’uno all’altro. Questo approccio è molto promettente per la guarigione delle afflizioni del mondo moderno.

Questo articolo è stato pubblicato su Center for Contemplative Research il 14 aprile 2019.

B. Alan Wallace

B. Alan Wallace ha insegnato meditazione e filosofia Buddhista in tutto il mondo dal 1976 e ha servito, come interprete, numerosi eruditi e contemplativi tibetani, tra i quali Sua Santità il XIV Dalai Lama. Dopo aver conseguito la laurea in Fisica e Filosofia della Scienza all’Amherst College nel 1987, ha proseguito il suo percorso di ricerca ottenendo nel 1995 il Ph.D. in studi religiosi alla Stanford University.

È fondatore e presidente del Santa Barbara Institute for Consciousness Studies e il presidente del consiglio di amministrazione del Thanyapura Mind Centre a Phuket, in Thailandia. Ha revisionato, tradotto, scritto e contribuito alla realizzazione di più di quaranta libri sul Buddhismo tibetano, la sua medicina, lingua e cultura e sul rapporto tra scienza e Buddhismo.

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