Le radici buddhiste dell’Hatha Yoga

Le radici buddhiste dell’Hatha Yoga

Molto è già stato scritto su quanto poco comprendano la storia dello yoga quelli come noi che si piegano in cani che guardano in giù o si inarcano in cammelli. Vale a dire, non molti. I dilettanti potrebbero anche non conoscere le basi: ossia che la pratica posturale dello yoga ora così popolare in Occidente discenda da una tradizione tantrica indù, o esoterica, chiamata Haṭha Yoga.

Questa confusione può sembrare aggravata dal fatto che la mindfulness occidentale e le tradizioni di Yoga siano ora profondamente intrecciate. Entrambe spesso avvengono negli stessi contesti (pensiamo ai riscaldamenti yoga nei ritiri di meditazione). Oppure si fondono insieme, come nelle pratiche di movimento consapevole nei centri Ch’an. I puristi possono obiettare che stiamo mescolando tradizioni storicamente diverse senza riguardo per i loro sistemi di radici separati. Sebbene ci possa essere qualche ragione dietro questa preoccupazione – mescolare pratiche diverse senza avere un’idea chiara di cosa siano o di come funzionino davvero non è una ricetta per una trasformazione profonda – l’idea che stiamo mescolando due cose distinte potrebbe essere basata su l’ennesimo malinteso della storia.

Fino a poco tempo fa, io stesso pensavo a una lezione di yoga infusa con il gergo della meditazione buddhista come a una mescolanza di due distinte tradizioni spirituali.

Eppure, mi sbagliavo in modo significativo. Sebbene sapessi che le tradizioni yogiche e buddhiste avevano profonde affinità nelle loro opinioni e pratiche, scoprire che i confini storici tra di loro fossero molto più sfocati di quanto avessi mai realizzato mi ha fatto sentire più a mio agio. Ho potuto così includere entrambe tr nel mio portafoglio di mezzi abili e trovandomi a mio agio con il modo in cui coesistono nell’età moderna.

Sadhu in meditazione. Licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported, foto di Wise Droid
Sadhu in meditazione

Cominciai ad essere interessato nello Zen dopo aver letto il romanzo di Jack Kerouac “I vagabondi del Dharma”, quando avevo 14 anni. Divorai diversi libri sull’argomento, ma non iniziai a sperimentare con la meditazione quotidiana in stile Zen fino a quando non uscii dalla mia adolescenza. All’epoca soffrivo per una brutta relazione e per la povertà di un approccio meramente intellettuale alle cose dello spirito. Più o meno nello stesso periodo mi interessai all’Haṭha yoga, che avevo compreso essere l’uso meditativo di posture fisiche per la salute mentale e fisica. Questo non è un modo insolito di intendere l’Haṭha Yoga, anche se, come avrei appreso in seguito, si getta via gran parte di ciò che la tradizione indiana premoderna era effettivamente. Una pratica con obiettivi come la liberazione dall’illusione e dalla sofferenza, la purificazione del corpo energetico sottile e l’unione con la base divina dell’essere.

Dopo diverse false partenze, quando avevo circa 20 anni vivevo come monaco buddhista ordinato nella tradizione della foresta thailandese. Finalmente iniziai a praticare una gamma più ampia di tecniche tradizionali di Haṭha Yoga come il Prāṇāyāma (esercizi di respirazione), i Kriyā (la purificazione corporea, ad esempio versando acqua salata nelle cavità nasali) e Bandha (contrazioni muscolari che hanno effetti energetici sul corpo e sulla mente).

Vidi quelle pratiche come aiuti utili alla preparazione alla meditazione, così come il fondamentale Haṭhayoga Pradīpikā del XV secolo.

Si tratta di un testo che descrive queste e altre pratiche di Haṭha Yoga come una “scala per raggiungere le vette del sentiero della meditazione”.

Buddhagosha con tre copie del Visuddhimagga. Licenza Creative Commons - attribuzione 2.0 Generica. Foto di Photo Dharma
Buddhagosha con tre copie del Visuddhimagga

Sebbene fossi immerso nel Buddhismo Theravada, mi sono appassionai sempre di più delle tradizioni yoga e fui lieto di scoprire che gli insegnanti birmani si riferivano comunemente alla pratica buddhista come yoga e ai suoi praticanti come yoghi, così come i testi buddhisti chiave come Visuddhimagga (Il cammino verso la purezza) di Buddhaghosa, composta nello Sri Lanka intorno al 430 d.C.

Mi piaceva la piccola sovrapposizione di vocabolario tra la pratica principale e la pratica minore nella mia vita. Tuttavia, mi preoccupavo se nel mescolare le due tradizioni non fossi abbastanza purista in nessuna delle due. Alcuni insegnanti dei lignaggi buddhisti e indù mettono in guardia sui pericoli che corre un dilettante prendendo in prestito da diverse religioni invece di approfondirne una sola. Era kosher mescolare?

Quello fu l’inizio della mia curiosità sulla relazione tra le tradizioni dello yoga indù e il buddhismo. Un’esplorazione che ha aperto un mare di connessioni e la realizzazione – sostenuta, come risulterebbe, da studi recenti – che i confini storici tra le tradizioni sono molto più porosi di quanto si possa pensare.

Il tempio di Kadri, Mangalore, Karnataka

La parola in pali e sanscrito “Yoga” risale a una radice verbale che significa “imbrigliare, aggiogare, legare”. Lo stesso Buddha parlò più volte dell’obiettivo del suo percorso spirituale come “anuttara yogakkhema“, “la sicurezza insuperabile dallo Yoga”, riferendosi non al bruciare la tessera di uno studio di yoga ma all’essere liberi dalla schiavitù. Non molto tempo dopo, però, la parola yoga inizia ad essere usata positivamente. La Katha Upanishad, probabilmente composta da saggi indù nei primi tempi delle comunità buddhiste, menziona lo yoga in relazione alla disciplina, in altre parole, aggiogare il corpo e la mente alla volontà.

Anche le fonti buddhiste successive usano la parola yoga per riferirsi alla disciplina spirituale.

Gli scritti indù successivi enfatizzano lo yoga più come uno stato di unione che viene raggiunto piuttosto che un mezzo. Nonostante questo, lo yoga come pratica è un significato che continua ad essere usato. Alla fine, riappare come primario nei periodi premoderno e moderno.

È la Bhagavadgītā, una sezione del poema epico Mahābhārata (tra il 300 d.C. e il 200 d.C.), che incarnava la piena fioritura di questo concetto classico di yoga come disciplina spirituale. Descrive diversi tipi di ciò che chiama yoga come percorsi per la liberazione spirituale. Nel periodo medievale sia buddhisti che indù usavano la parola yoga per riferirsi alle loro discipline spirituali.

L’Haṭha Yoga indiano premoderno era un gruppo complesso di pratiche tantriche audaci e talvolta pericolose.

James Mallinson

Alla ricerca di maggiore chiarezza su questo, ho parlato con James Mallinson. Nel 2011 il rinomato sanscritologo di Oxford e studioso di testi indiani classici e medievali (con particolare interesse per lo yoga), che a sua volta sembra più sādhu che professore, è andato in pellegrinaggio a Kadri, nel sud-ovest dell’India, per visitare un monastero dei Naths (“Signori”), una tribù secolare di sādhu, asceti che vivono in gruppi quasi monastici al di fuori della società tradizionale, noti per i loro stili di vita nomadi e rinuncianti e le complesse tradizioni tantriche.

La stessa somiglianza di Mallinson con un sadhu è sorprendente: infatti, è l’unico occidentale mai riconosciuto come un mahant, o sādhu anziano di rango, da una di queste tribù di yogi. Mallinson era al monastero di Kadri per vedere due statue sull’altare del tempio. Aveva letto di queste statue nel lavoro di un’antropologa francese, Véronique Bouillier.

La divinità centrale dell’altare in Kadri è Manjunatha, una forma di Shiva, il dio indù più strettamente associato al Tantra e allo Yoga.

Manjunatha significa “signore delle nevi”, un riferimento alla mitica dimora di montagna di Shiva. Su entrambi i lati della divinità, nascoste nella grondaia, Mallinson vide quello che stava cercando: due statue alte 3 o 4 piedi che mi ha detto che erano “tra i più bei bronzi in India della loro epoca, in stile Chola“. Uno di loro è identificato in un’iscrizione del 1068 come Lokeśhvara (Avalokiteśvara, il bodhisattva della compassione); l’altro è Manjuvara (Mañjuśrī, il bodhisattva della saggezza). Ma come avevano fatto due Bodhisattva buddhisti ad affiancare uno Shiva tantrico indù?

Le statue sono la prova, mi ha detto Mallinson, che un tempo il monastero apparteneva a praticanti buddhisti tantrici. Questa indicazione è supportata anche da un riferimento ad esso come Vihāra (una parola usata solo per i monasteri buddhisti) negli annali di un ré shaivita che fece donazioni al monastero nell’XI secolo. L’integrazione fisica di un monastero tantrico buddhista nella tradizione Nath rispecchia un processo a cui Mallinson si è interessato da anni. L’integrazione di elementi del tantra buddhista nelle tradizioni tantriche indù, compresa la tradizione che ora conosciamo come yoga. Una delle integrazioni che Mallinson ha ricercato è piuttosto scioccante e in una conversazione con lui ho scoperto che era solo la punta dell’iceberg.

Ciò che mi ha ispirato a parlare con Mallinson è stato un testo che aveva incluso nell’antologia The Roots of Yoga, che ha curato e tradotto insieme a un altro studioso di yoga, Mark Singleton.

Il testo era una scrittura buddhista tantrica dell’XI secolo, l’Amṛtasiddhi, che elenca le pratiche fisiche chiamate bandha (“chiusure”).

Sri Patthabi K. Jois

Se il termine bandha ti suona familiare, potresti aver praticato yoga secondo il popolare sistema dell’Ashtanga Vinyasa Yoga sviluppato nel XX secolo da Patthabi K. Jois. Nell’Ashtanga Vinyasa Yoga, durante la pratica, si tengono tre bandha di questo tipo: il mula (nel perineo), il jalandhara (nella gola) e l’uddhiyana (nell’addome inferiore).

Quei tre bandha, a lungo ritenuti indigeni della tradizione tantrica indù, sono stati ricondotti all’Amṛtasiddhi, “che contiene effettivamente il primo esempio di utilizzo del corpo fisico in questo modo – per influenzare il corpo energetico sottile – di cui siamo consapevoli”, dice Mallinson.

Sebbene il termine Haṭha sia spesso tradotto come “forza”, l’Haṭha Yoga è solitamente associato in Occidente a un approccio gentile e tradizionalista alle posture yoga. A differenza delle varietà occidentali più atletiche. L’Haṭha yoga indiano premoderno, tuttavia, era un gruppo complesso di pratiche tantriche audaci e talvolta pericolose che andavano ben oltre gli āsana e miravano a frenare e imbrigliare le energie vitali del corpo.

Lo scopo ultimo era la liberazione spirituale.

Fino a poco tempo fa si pensava che quel gruppo di pratiche avesse origine nel tantra indù. Eppure, Mallinson e altri studiosi affermano che ci sono prove crescenti che in realtà abbiano avuto origine nel tantra buddhista indiano, o Vajrayana.

Ciò che è ancora più sorprendente del trovare i bandha in un antico testo tantrico buddhista – come ha sottolineato Jason Birch, uno studioso di tradizioni indiane medievali presso l’Università di Londra – è che la prima menzione conosciuta in qualsiasi opera indiana del termine stesso Haṭha Yoga si trova in un importante testo buddhista dell’VIII secolo, il Guhyasamaja Tantra, dove è raccomandato per i praticanti che hanno difficoltà a ottenere visioni tantriche della loro divinità della meditazione.

La prima spiegazione conosciuta di cosa sia l’Haṭha Yoga, tuttavia, è stata trovata in un commento dell’XI secolo al buddhista Kalachakra Tantra, che identifica l’Haṭha Yoga con la ritenzione forzata di bindu (seme) e prana (respiro) così come il lavoro con nada (suono interno) come ausilio alla pratica. L’Amritasiddhi più o meno contemporaneo, discusso sopra, identifica bindu, prana e nada con la mente. Quindi l’originale Haṭha Yoga mirava alla padronanza delle energie vitali e della mente come una pratica correlata.

Fantastic Bandhas And Where To Find Them - Ashtanga Yoga Girl
I tre Bandha

Le origini dei bandha e dell Haṭha Yoga nei testi buddhisti sono esempi lampanti della stretta relazione tra il tantra buddhista e quello indù. Condividono anche interessi e obiettivi filosofici simili – così tanti, infatti, che la loro relazione ovviamente intima è “nascosta in bella vista”, per così dire. Parole chiave come “yoga”, “tantra”, “mantra”, “siddhi”, “nirvana” e “karma” sono fondamentali per entrambe le tradizioni. Inoltre, molte delle loro pratiche, obiettivi e visioni della mente e della realtà sono in sintonia con l’un l’altro. Per esempio, la qualità onirica della realtà o la natura già liberata della consapevolezza, che sono idee fondamentali in entrambe le tradizioni.

Forse più sorprendentemente, condividono anche i maestri. Un testo tantrico buddhista tibetano molto amato del XII secolo, Le leggende degli ottantaquattro Mahāsiddha, contiene storie di maestri buddhisti illuminati, molti dei quali erano anche maestri riconosciuti e celebrati nei lignaggi tantrici indù: per esempio, i maestri buddhisti Minapa (Matsyendranath) e Goraksha (Gorakhnath) furono anche figure fondatrici della tradizione Nath, che è strettamente associata allo sviluppo dell’Haṭha Yoga in India. Eppure la ricerca ha qualcosa di ancora più sorprendente da dire.

Un asceta

Qual è l’origine delle posture fisiche note come āsana che noi occidentali identifichiamo ora con lo yoga?

Sorprendentemente, la pratica degli āsana non sembra aver fatto parte del primo Haṭha Yoga e non è stata integrata con essa fino a secoli dopo. La prima descrizione nota dell’uso terapeutico degli āsana infatti si trova in un testo tantrico buddhista, nel già citato Kālacakra Tantra:

“Tenere i piedi nella posizione del loto elimina il dolore alla schiena. Avere i piedi in alto e la testa in basso [cioè una posizione sulla testa] rimuove nella sua interezza la malattia del catarro nel corpo.”

(Kālacakra Tantra 2.112d – 113a)

Secondo Mallinson, questo insegnamento buddhista, scritto tra il 1025 e il 1040 d.C., è “la prima menzione dei benefici terapeutici degli āsana in un testo indiano che conosca”.

Āsana significava “seduta” o “posizione seduta” nei primi testi yogici e poteva facilmente riferirsi a uno sgabello come a una postura fisica; è venuto a significare “posizione di meditazione seduta” nei testi indù del primo millennio.

All’inizio del XII-XIV secolo l’uso della parola āsana si espanse nella cultura indiana per includere posture per il wrestling e per fare l’amore.

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Padmāsana – La posizione del Loto e Uttarabodhi Mudrā

Solo nell’Haṭhayoga Pradīpikā (Luce sull’Haṭha Yoga) una varietà di āsana – 15 in totale. Si dice che abbiano benefici sia spirituali che medici e che siano identificati ufficialmente come parte dell'”Haṭha Yoga”, un’identificazione che è rimasta.

Eppure l’Haṭhayoga Pradīpikā fu scritto quattro secoli dopo il Kālacakra Tantra, facendo l’uso buddhista degli āsana terapeutiche molto prima di quello indù. Se trovi questo difficile da seguire, non sei solo.

“Il linguaggio yogico è fragile e proteiforme”, secondo David Gordon White, un rinomato studioso di tradizioni yoga indiane medievali e J. F. Rowny, Professore di Religione Comparata all’Università di Santa Barbara.

“Le parole sono incorporate nelle strutture cristalline del pensiero yogico, ma poi i significati cambiano nel tempo, essendo recuperati e riproposti ancora e ancora alla luce delle tradizioni in evoluzione.”

In effetti, la connessione tra Yoga e Buddhismo in India risale a molto più indietro rispetto agli esempi della tradizione medievale sopra. Gli Yoga Sūtra, il trattamento filosofico popolare di etica, meditazione e liberazione solitamente attribuito a Patañjali e comunemente usato nei corsi di formazione per insegnanti di yoga occidentali odierni, risalgono a prima del 400 CE contiene elementi buddhisti così forti che un indologo contemporaneo, Michel Angot, crede che il testo sia stato scritto da un buddhista e successivamente sovrascritto e adottato dalle tradizioni indù.

Il filosofo Vedanta del VI secolo Gauḍapāda è noto per aver adottato elementi della filosofia buddhista dalle tradizioni Madhyamaka e Yogācāra.

Il suo lavoro a sua volta influenzò pesantemente il pensiero di Adiśaṅkara, che è considerato il fondatore della scuola Advaita Vedānta (non duale), una tradizione le cui idee centrali hanno pervaso i filoni filosofici dell’induismo da diversi secoli. Sia Gauḍapāda che Adiśaṅkara furono accusati di essere “cripto-buddhisti” ai loro tempi, sebbene la maggior parte degli studiosi oggi affermi che erano più probabilmente semplicemente vedantini influenzati dal pensiero buddhista.

Adiśaṅkara

Forse potremmo adottare una metafora di due giardini sovrapposti i cui semi si impollinano a vicenda.

L’idea che Buddhismo ed Induismo fossero tradizioni distinte in contrasto tra loro in India potrebbe essere derivata da testi polemici che non riflettevano mai accuratamente la complessa situazione sul terreno. Era comune per i saggi di tradizioni diverse scrivere testi che affermassero il valore delle proprie tradizioni criticando i difetti di altre tradizioni. Inoltre, i dibattiti pubblici tra gli intellettuali di tradizioni diverse erano popolari. Tuttavia queste pratiche retoriche, che tendevano a tracciare nette distinzioni tra i punti di vista dei diversi gruppi potrebbero non rappresentare la realtà vissuta tra i praticanti. Anche se sono ancora studiate nei circoli buddhisti oggi.

“L’eclettismo è stato parte integrante della filosofia indiana sin dall’inizio”, afferma White. “Non sappiamo nemmeno quanto fossero nette le linee di confine tra le tradizioni giainiste, indù e buddhiste. A volte vediamo pandit di diverse tradizioni che si dissero a vicenda, ma sapevano così tanto l’uno dell’altro, dovevano aver praticato attraverso le linee”.

White sottolinea anche che molte pratiche tantriche divenute popolari tra i buddhisti, come l’identificazione con una divinità, la visualizzazione di maṇḍala e cakra, la ricerca di poteri magici, la sovversione dell’etica normativa e l’uso di divinità irate, probabilmente hanno avuto origine in contesti indù. White crede che siano stati adottati dai buddhisti durante un periodo in cui il Buddhismo era in declino e il tantra indù in ascesa.

Forse questa fecondazione incrociata non dovrebbe sorprenderci: la cultura yogica del V secolo d.C. era, dopotutto, l’utero in cui nacque il risveglio del Buddha.

Prima che il centro di gravità del buddhismo si spostasse dall’India nell’XI secolo, la tradizione buddhista indiana crebbe in gran parte grazie all’ispirazione o alla discussione con le tradizioni indù.

Invece di vedere l’induismo e il buddhismo come due animali diversi che delimitano territori vicini, forse potremmo adottare una metafora di due giardini sovrapposti i cui semi si impollinano a vicenda. Come mondi che si incontrano al “margine fertile”, la ricca terra di confine in cui si fondono gli ecosistemi.

Coloro che oggi combinano la pratica Vajrayāna con l’Haṭha Yoga non sono tanto iconoclasti quanto rimpatriati nella fluida cultura tantrica dell’India medievale.

What is Nisarga Yoga of Nisargadatta Maharaj? - Nic Higham - Nisarga Yoga
Nisargadatta Maharaj, (Aprile 1897 – Settembre 1981)

Ho avuto un momento entito come spartiacque nella mia comprensione delle tradizioni buddhiste e non buddhiste dell’India quando ero un monaco buddhista e mi sono imbattuto in una copia del venerato testo dell’Advaita Vedānta moderno, “I Am That”, una raccolta di conversazioni di Nisargadatta Maharaj, un semplice negoziante e padre di famiglia che insegnava nel suo appartamento a Mumbai e che molti occidentali, inclusi insegnanti buddhisti come Jack Kornfield e Joseph Goldstein, andarono a vedere negli anni ’70. Sebbene sia fonte di ispirazione, l’attenzione di Maharaj sulla realizzazione del “Sé” può anche essere inusuale per un buddhista.

“Quale io?” potrebbe chiedere un buddhista. Come puoi liberarti da tutti gli attaccamenti e la sofferenza se credi in un sé?

Questa stessa domanda viene affrontata da Maharaj quando sfidato da un monaco buddhista che lo visita. Quando viene pressato, Maharaj ammette che in realtà non esiste un sé e che lo stato di libertà è impersonale.

“Il Sé è solo un gancio che usiamo per catturare il pesce dell’ego”, dice Maharaj. “Una volta che abbiamo il pesce, buttiamo via l’amo.”

Ho capito leggendo questo articolo che queste due grandi tradizioni potrebbero non essere semplicemente intrecciate; forse stavano usando linguaggi e percorsi diversi per raggiungere gli stessi obiettivi. Forse erano come i diversi “mezzi abili” discussi dai buddhisti Mahāyāna, non due tradizioni in competizione che si escludono a vicenda. Se questo è vero, e possono essere intesi come due lingue diverse per parlare dello stesso viaggio umano verso la liberazione, allora lo yogi dovrebbe essere libero di imparare da entrambi e di adottare giudiziosamente le pratiche.

Forse siamo più come una famiglia, o una conversazione, o parti diverse di un giardino, che settari che si lanciano frecciate a vicenda nelle sale dei dibattiti. Se questo è vero, forse uno Shiva tantrico affiancato da due Bodhisattva come quello sull’altare di Kadri è giusto.

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